Gennaio 1938. Il diretto Bologna-Parigi è affollato. C’è un po’ di tutto, semplici vacanzieri, commercianti, gente normale. Ma non solo. Tra i vagoni di quel treno c’è anche un uomo. Un uomo che di normale ha ben poco. È un ungherese, ebreo, di bell’aspetto, elegante. Non è solo, con lui nello scompartimento ci sono sua moglie Elena e i suoi figli, Roberto e Clara. Il suo nome è Árpád Weisz.
La fronte alta, lo spazio imponente tra i capelli, rigorosamente schiacciati, resi piatti dalla moda di Rodolfo Valentino e Fred Astaire. Il sorriso, appena abbozzato in alcune foto, smagliante in altre, onesto e reso ancora più pulito da quegli occhiali tondi che lo rendevano un fumetto e, a pensarci bene, persino l’incarnazione di una sua convinzione, ovvero che lo “0-0 è il risultato perfetto”. Quel tipo di montatura era la perfetta riproduzione grafica di quella deduzione. Non a caso per definire uno 0-0 viene usata ancora la formula: “occhiali”.
È stato un divo, oltre che uno sportivo. Ha giocato, vinto, lottato contro i suoi istinti, schiavo delle sue debolezze. È caduto e si è rialzato. Ma, soprattutto, ci ha dimostrato che il tennis non è solo un gioco.
Era il 1977. Alla fine di una partita tra The Wailers, gruppo reggae/rocksteady giamaicano, di cui Bob Marley era capitano, contro una compagine di giornalisti, notò una ferita all’alluce destro. Molto probabilmente un avversario lo colpì con un tacchetto arrugginito

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