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“Adolescence”: la miniserie Netflix che ha scosso genitori, scuole e politica

Nel panorama affollato delle produzioni streaming, poche serie riescono a travalicare il confine dello schermo e influenzare il dibattito pubblico. Adolescence, miniserie britannica prodotta da Brad Pitt e distribuita su Netflix, è riuscita in questa impresa. In soli quattro episodi, racconta l’omicidio di una tredicenne per mano di un coetaneo, Jamie Miller, e lo fa con tale potenza narrativa ed emotiva da diventare la serie più vista al mondo su Netflix in meno di una settimana. Ma è il tema al centro del racconto – la mascolinità tossica e la radicalizzazione online degli adolescenti – ad aver fatto della serie un autentico caso culturale e politico.

Il caso Jamie Miller e la radicalizzazione invisibile

Jamie è un tredicenne dello Yorkshire che, apparentemente, conduce una vita normale insieme ai suoi genitori e alla sorella. L’arresto per l’omicidio di una compagna di scuola svela però un mondo sotterraneo fatto di bullismo, isolamento e contenuti online tossici. La serie analizza il suo processo di radicalizzazione all’interno della cosiddetta “manosfera”, un ecosistema digitale in cui si intrecciano misoginia, ideologie incel e rifiuto dei valori femministi.

Gli autori Jack Thorne e Stephen Graham hanno lavorato alla sceneggiatura per oltre due anni, ispirati da casi reali di cronaca britannica. Thorne, per documentarsi, ha creato falsi account sui social media e ha esplorato per mesi i contenuti delle comunità incel. L’esperienza, ha raccontato, lo ha lasciato scioccato: “La matematica distorta della visione incel può sembrare pericolosamente attraente per molti giovani uomini“, ha detto. In questi ambienti, idee come l’inferiorità delle donne e il diritto maschile al sesso vengono normalizzate e giustificate.


Che cos’è la Manosfera?

La Manosfera è un insieme di comunità online, forum, blog e influencer che discutono tematiche legate alla mascolinità, al ruolo degli uomini nella società, alle relazioni e alla sessualità, spesso con toni polemici, antifemministi o apertamente misogini. Seppur eterogenea, la manosfera è spesso criticata per promuovere discorsi tossici, teorie del complotto e atteggiamenti pericolosi, contribuendo in alcuni casi alla radicalizzazione di giovani uomini e a episodi di violenza.

Cosa sono gli Incel?

Gli Incel, abbreviazione di involuntary celibates (celibi involontari), sono uomini (in larga parte eterosessuali) che si identificano come incapaci di avere relazioni sentimentali o sessuali nonostante il desiderio di averle. Il termine è nato alla fine degli anni Novanta in un contesto neutro — creato da una donna canadese che voleva offrire supporto a chi si sentiva solo — ma nel tempo è stato assorbito in comunità online maschili che esprimono frustrazione, risentimento e odio verso le donne, gli uomini “alfa” e la società in generale.


Un solo piano sequenza

Adolescence non ha avuto una grande campagna promozionale. Eppure, grazie al passaparola, è diventata un fenomeno globale. In Italia è ancora la serie più vista, e nel primo weekend ha raggiunto la vetta delle classifiche di Netflix in più di 70 Paesi.

Il successo non si spiega solo con la storia che racconta, ma anche con il modo in cui è raccontata: ogni episodio è girato interamente in piano sequenza, senza tagli nascosti o montaggi mascherati, un’impresa rara e ambiziosa nel panorama audiovisivo contemporaneo. A differenza del cosiddetto “finto piano sequenza”, che simula la continuità attraverso sapienti tecniche di montaggio (come fece Alfred Hitchcock nel 1948 con Nodo alla gola, realizzando undici piani sequenza uniti tramite stacchi su elementi neutri per aggirare i limiti tecnici della pellicola), Adolescence si distingue per la totale assenza di questi artifici.

Ogni episodio, della durata di circa un’ora, è stato realizzato in un’unica ripresa, con la macchina da presa sempre in movimento, anche nelle sequenze più statiche, come quella della seduta tra la psicologa Briony Ariston (Erin Doherty) e il giovane Jamie Miller (Owen Cooper). Questo ha richiesto una complessa coreografia tra attori e troupe, resa possibile grazie alla regia di Philip Barantini, già autore del film Boiling Point (2021), anch’esso girato in one shot. Lo sceneggiatore Jack Thorne ha adattato continuamente lo script per facilitare i movimenti sul set, mentre tecnici e operatori hanno spesso preso parte alle scene come comparse per integrarsi negli spazi e nei tempi dell’azione.

La scelta delle location è stata cruciale, come nel caso del primo episodio, girato in uno studio vicino a una vera abitazione periferica di South Kirkby, nello Yorkshire, per permettere fluidità tra gli ambienti. Ogni episodio ha richiesto tre settimane di preparazione e una decina di take, ma molte riprese sono state scartate e rifatte più volte, con la regola che eventuali errori non compromettenti venivano tollerati, anzi, talvolta valorizzati: come accade nel secondo episodio, quando l’insegnante si dimentica di presentare un personaggio e lo recupera in modo spontaneo, rendendo la scena più autentica. Le riprese scelte per la versione finale sono la seconda per il primo episodio, la tredicesima per il secondo, l’undicesima per il terzo e la sedicesima per l’ultimo. Una delle scene più complesse, il finale della seconda puntata, ha richiesto una camera leggera ma performante, la DJI Ronin 4D, usata sia a mano che montata su un drone: dopo un inseguimento e un passaggio attraverso una finestra, la cinepresa si alza in volo e sorvola la scuola fino a raggiungere il parcheggio dove vengono deposti dei fiori per una vittima, chiudendosi con un primo piano di Stephen Graham, che interpreta Eddie, il padre del protagonista. L’approccio scelto da Graham e Thorne è stato quello di costruire un’esperienza narrativa il più organica e immersiva possibile, in cui lo spettatore viene accompagnato – non forzato – dentro il dolore di una famiglia e di una comunità, con l’energia viscerale tipica del teatro e delle performance dal vivo.

Una serie che scuote la politica

Il primo ministro britannico Keir Starmer ha guardato Adolescence insieme ai suoi figli adolescenti, di 14 e 16 anni, definendola “un dramma bellissimo” e riconoscendone l’urgenza: secondo lui, affronta “un problema crescente” che non può più essere ignorato. Gli ha fatto eco la parlamentare Anneliese Midgley, che ha chiesto ufficialmente che la serie venga proiettata nelle scuole come strumento educativo, capace di parlare ai ragazzi nel loro stesso linguaggio, ma anche di mettere gli adulti davanti a realtà spesso ignorate. Non a caso Thorne ha dichiarato che fin dall’inizio l’intenzione era proprio quella di portare la serie nelle aule scolastiche e nel dibattito politico. E così è stato: Adolescence è diventata molto più di un prodotto televisivo, trasformandosi in un catalizzatore per una riflessione collettiva sull’adolescenza contemporanea, l’uso dei social, la deriva misogina e il ruolo delle istituzioni.

La spinta a promuovere una legge che vieti l’uso dei social media ai minori di 16 anni, proposta da Thorne stesso, prende esempio dall’Australia e nasce da dati che non lasciano spazio a dubbi: secondo l’Office for National Statistics britannico, le aggressioni con coltello in Inghilterra e Galles sono aumentati del 4,4% nell’ultimo anno, e i casi di stupro e violenza sessuale hanno registrato una crescita allarmante del 16,7%, colpendo in gran parte le donne. Adolescence nasce proprio da queste statistiche, da storie vere e da un’urgenza narrativa e civile. La serie non si limita a raccontare, ma denuncia: cita esplicitamente l’influenza negativa di figure come Andrew Tate, diventate simbolo di una virilità tossica e aggressiva, che offre risposte semplicistiche a ragazzi disorientati.

Jamie è stato inquinato da idee che ha trovato online e che gli offrivano una logica, una risposta alla sua solitudine. Una logica sbagliata, ma che ha avuto presa su di lui“, ha raccontato Thorne. Non si tratta di demonizzare, ma di comprendere: la rete offre ai giovani modelli apparentemente coerenti, identità pronte all’uso, spiegazioni seducenti a un disagio che spesso non trova ascolto né a scuola né in famiglia e né nelle istituzioni.

L’effetto domino che la serie ha generato è stato vasto e trasversale. Hannah Walters, co-produttrice e moglie di Stephen Graham, ha ricevuto centinaia di messaggi da parte di genitori che, commossi, hanno trovato nella serie una rappresentazione autentica della paura quotidiana di non riuscire a proteggere i propri figli. Anche gli attori ne sono usciti segnati: Erin Doherty, che interpreta la psicologa Briony Ariston, ha raccontato quanto sia stata emotivamente intensa la lavorazione del terzo episodio, girato in un unico piano sequenza dopo undici tentativi. In quell’ora di ripresa ininterrotta, Jamie passa da ragazzo silenzioso a figura spigolosa e aggressiva, mostrando quanto la rabbia possa diventare l’unico linguaggio possibile per chi si sente inascoltato. Un episodio che ha colpito nel profondo molti spettatori, proprio per la sua crudezza e autenticità. Come ha osservato Daisy Greenwell, fondatrice dell’organizzazione Smartphone Free Childhood, la serie ha dato voce a un “panico latente” tra i genitori, rendendo visibile quanto sia difficile – e spesso impossibile – monitorare ciò che i figli vivono online, cosa leggono, a chi credono.

Ma Adolescence non si limita a denunciare. Al contrario, costruisce un quadro complesso in cui tutte le responsabilità sono distribuite: una scuola pubblica senza fondi e senza strumenti, genitori impreparati e sopraffatti, forze dell’ordine incapaci di affrontare le nuove dinamiche digitali, e una società che ha perso la capacità di parlare ai più giovani senza giudicarli o spaventarli. Come ha affermato lo stesso Thorne, parafrasando un vecchio proverbio: “Ci vuole un villaggio per crescere un bambino, ma anche per distruggerlo“. In questo senso, la serie è un atto politico e civile, un richiamo alla collettività, alla responsabilità diffusa.

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