In una fredda sera del 2016, nei pressi della città turca di Adana, İzzettin Akman, un contadino curdo, si trovava seduto sul balcone di casa quando un camion si avvicinò ai suoi agrumeti e scaricò un carico di spazzatura lungo la strada. L’autista diede fuoco ai rifiuti prima di andarsene, e le fiamme si propagarono rapidamente, distruggendo circa 50 acri di alberi di arance e limoni. Akman corse verso l’incendio, cercando di spegnerlo con secchi d’acqua presi da un ruscello vicino. Dopo circa un’ora, le fiamme si spensero, lasciando dietro di sé una massa fumante di plastica bruciata. Frugando tra i detriti, Akman notò che molte confezioni riportavano scritte in lingue straniere, rivelando che i rifiuti provenivano dall’Europa. Per decenni, Akman aveva coltivato arance e limoni destinati ai mercati europei. Ora, ironicamente, l’Europa sembrava restituirgli plastica e spazzatura, proprio ai margini dei suoi agrumeti.
Un anno dopo l’incendio, le perdite subite da Akman avevano spinto la sua famiglia sull’orlo di una grave crisi finanziaria. Gli alberi di agrumi, danneggiati dall’esposizione al fumo tossico, non produssero alcun frutto. Si scoprì che un incendio di rifiuti plastici, anche se durato solo un’ora, può provocare danni ambientali duraturi. Anche dopo lo spegnimento delle fiamme, il cumulo di spazzatura continuava a emettere fumo tossico che, con ogni probabilità, aveva decimato la popolazione di api, fondamentali per l’impollinazione degli agrumi. Inoltre, i residui di plastica semi sciolta erano stati trascinati nel ruscello utilizzato per l’irrigazione della fattoria, frammentandosi in miliardi di microplastiche e contaminanti. Questi agenti inquinanti si erano così diffusi nel sistema idrico e, attraverso le radici, erano stati assorbiti dagli alberi, danneggiandoli in modo simile a come il grasso ostruisce le arterie umane.
Con l’introduzione massiccia della plastica nelle fiere e nelle esposizioni degli anni Quaranta, questo materiale venne presentato al pubblico come una rivoluzione: un prodotto che avrebbe potuto scomparire non appena il consumatore avesse deciso di non usarlo più. Derivata dai sottoprodotti chimici della raffinazione degli idrocarburi, la plastica si impose per due motivi principali: era incredibilmente economica da produrre, poiché sfruttava gli scarti della produzione energetica, ed era estremamente versatile e comoda da utilizzare. Ma dietro questa apparente praticità si celava un costo ambientale devastante. La plastica è diventata una sorta di bomba a orologeria ecologica: oggetti progettati per pochi minuti di utilizzo — come sacchetti, contenitori da asporto o imballaggi — impiegano tempi quasi geologici per degradarsi. Dal 1950, gli esseri umani hanno prodotto e scartato circa 9 miliardi di tonnellate di plastica, gran parte delle quali esiste ancora oggi in discariche, oceani e persino nel nostro cibo. Il loro processo di disintegrazione, che può durare migliaia di anni, produce microplastiche e contaminanti chimici il cui impatto sugli ecosistemi e sulla salute umana è ancora oggi oggetto di studio.
Negli anni Ottanta si è iniziato a comprendere meglio l’entità del problema. Frammenti microscopici di plastica vennero trovati nei ventri dei pulcini di albatros appena nati alle Hawaii, nelle acque costiere del Long Island Sound e persino nei pesci che popolavano i nostri mari. A quel punto la domanda sorgeva spontanea: che fine faceva tutta la plastica che veniva buttata via ogni giorno? Fu allora che l’industria petrolchimica, messa sotto pressione dall’opinione pubblica sempre più attenta alle questioni ambientali, escogitò una strategia di marketing ben finanziata per invertire la narrazione. La plastica non era più il problema, bensì la soluzione: non era necessario buttarla in discarica o incenerirla. Poteva essere riciclata e riutilizzata, riducendo così l’impatto ambientale.
Il concetto di riciclaggio, di per sé, non è un mito. È possibile trasformare un vecchio giornale in uno nuovo o rifondere una lattina di alluminio usata in un’altra perfettamente riutilizzabile. Metalli come il rame, estratto dai rifiuti elettronici, o l’acciaio recuperato da navi smantellate vengono efficacemente reimpiegati per creare nuovi prodotti. Ma l’idea che la maggior parte della plastica possa essere riciclata con successo è in gran parte una finzione. Si tratta di un’illusione costruita per sostenere un’economia circolare che, almeno nel caso della plastica, non è mai esistita veramente. Questo perché la plastica non è progettata per essere riciclata in modo efficace o economico. La complessità comincia dalla materia stessa. Il termine “plastica” è un’etichetta generica che copre migliaia di polimeri sintetici diversi, ognuno con una composizione chimica specifica e una miriade di additivi. Questa eterogeneità rende il riciclaggio della plastica un incubo tecnico, poiché non esiste un processo universale in grado di trattare tutte le tipologie di plastica insieme.
Ciò era già evidente nel 1969 quando studi finanziati da Esso, Chevron e l’American Petroleum Institute conclusero che la plastica, proprio grazie alla sua complessa struttura molecolare che ne garantisce la durabilità, era praticamente impossibile da smaltire naturalmente. Thomas Becnel, dirigente della Dow Chemical, lo ammise chiaramente: “È ironico che la stessa struttura molecolare che ha reso la plastica così popolare crei gravi problemi di smaltimento“. La plastica non si decompone facilmente, non può essere rifusa infinite volte e, nella maggior parte dei casi, finisce semplicemente per accumularsi.
Oltre alle difficoltà tecniche, c’è anche un problema economico insormontabile. Produrre plastica nuova è quasi sempre più economico che riciclare quella vecchia. Sempre nel 1969, l’American Chemistry Council evidenziava questo paradosso nel rapporto Cleaning Our Environment, sottolineando che, sebbene potesse esserci la speranza che scienziati e ingegneri trovassero un modo per riciclare la plastica in modo economicamente vantaggioso, la realtà mostrava che questo obiettivo era ben lontano dall’essere raggiunto.
E anche quando il riciclaggio riesce, i limiti intrinseci della plastica emergono rapidamente. A differenza di materiali come l’acciaio o l’alluminio, che possono essere rifusi e riutilizzati un numero indefinito di volte, la plastica ha una data di scadenza. Dopo due o tre cicli di riciclaggio, la sua struttura si deteriora al punto da non poter essere più lavorata, rendendo inevitabile il suo smaltimento finale. Il Vinyl Institute, un’importante lobby dell’industria della plastica, lo ammise nel 1986:
Il riciclaggio non può essere considerato una soluzione permanente ai rifiuti solidi, poiché prolunga semplicemente il tempo prima che un articolo venga definitivamente smaltito.
C’è poi un altro problema, meno noto ma altrettanto grave: il riciclaggio stesso può essere fonte di contaminazione. Le plastiche di consumo contengono una serie di additivi chimici scarsamente regolamentati. Durante il processo di riciclaggio (che prevede lavaggio, sminuzzamento e fusione della plastica), però, queste sostanze non vengono eliminate. Anzi, il calore e la lavorazione facilitano il rilascio di tossine, che finiscono poi per contaminare stessa la plastica “riciclata”, in un fenomeno noto come migrazione chimica.
Ma forse l’argomento più solido contro il riciclaggio della plastica è uno di pura logica: anche se il sistema funzionasse perfettamente, anche se fosse economicamente redditizio e anche se non diffondesse tossine, il riciclaggio non risolverebbe mai il problema alla radice della crisi dei rifiuti globali. Il vero nemico è la sovrapproduzione. Nonostante decenni di sforzi apparenti per incentivare il riciclaggio, la produzione di plastica continua a crescere in modo esponenziale. Ci sono 40 anni di dati che dimostrano come i Paesi che vantano i tassi di riciclaggio più elevati siano anche quelli che producono più rifiuti plastici pro capite. Un esempio lampante è quello degli Stati Uniti: nel 1980, ogni cittadino americano produceva circa 27 kg di rifiuti plastici all’anno. Nel 2018, quella cifra era salita a 99 kg. Questo nonostante tutte le campagne di riciclaggio e i programmi di sensibilizzazione. Perché? Perché il riciclaggio della plastica non elimina mai la necessità di utilizzare resina vergine nei nuovi cicli produttivi. Ogni oggetto “riciclato” richiede comunque l’aggiunta di plastica nuova per mantenere le proprietà strutturali del materiale. Quindi, anche il riciclaggio — paradossalmente — contribuisce alla continua produzione di plastica, piuttosto che ridurla.
Pochi mesi dopo la tragedia di Akman, la first lady turca, Emine Erdoğan, annunciava con grande enfasi il progetto “Rifiuti Zero“, un’iniziativa che avrebbe dovuto trasformare la Turchia in un Paese modello nella gestione sostenibile dei rifiuti. In effetti, negli ultimi trent’anni, la Turchia è diventata sempre più dipendente dalla plastica, raggiungendo livelli di consumo simili a quelli dei Paesi più industrializzati. Tradizioni secolari, come le storiche fontane pubbliche ottomane — i sebil — che offrivano gratuitamente acqua fresca alle comunità, sono state gradualmente soppiantate dall’avvento delle bottiglie in polietilene tereftalato (PET), introdotte nel Paese nel 1984. All’inizio degli anni 2000, poi, i cittadini turchi acquistavano decine di milioni di bottiglie di plastica al giorno, contribuendo massicciamente all’aumento dei rifiuti. Anche i bazar tradizionali, dove la spesa veniva riposta in sacchi di cotone riutilizzabili, hanno ceduto il passo ai moderni supermercati, che utilizzavano sacchetti di plastica leggeri e trasparenti. Nel 2010, si stima che in Turchia venissero scartati circa 35 miliardi di questi sacchetti all’anno.
Il risultato? Oltre il 90% della plastica utilizzata finiva inevitabilmente nelle discariche, nei campi e, purtroppo, anche nel mare. Questo disastro ambientale è stato documentato nel film Garbage in the Garden of Eden del regista turco-tedesco Fatih Akin, che racconta la storia di un villaggio pittoresco, arroccato sulle montagne sopra il Mar Nero, che venne trasformato in una discarica a cielo aperto contro la volontà degli abitanti.
La spazzatura è l’escremento globale della nostra società.
Fatih Akin
Di fronte a una situazione ambientale sempre più drammatica, il progetto Rifiuti Zero prometteva di trasformare la Turchia da uno dei Paesi con il peggior record nella gestione dei rifiuti in un modello internazionale di sostenibilità ambientale. La visione di Erdoğan era chiara: eliminare i rifiuti incontrollati, creare un sistema efficiente di raccolta e riciclaggio e garantire alle future generazioni un “mondo vivibile”.
“Una Turchia pulita! Un mondo vivibile!” era lo slogan della campagna che divenne in pochi mesi un mantra nazionale. Il progetto fu lodato sia a livello nazionale che internazionale. I media turchi lo descrissero come molto più di una semplice iniziativa ambientale, definendolo “un’emozione” collettiva. Emine Erdoğan ricevette riconoscimenti da istituzioni globali come l’ONU e la Banca Mondiale. Pubblicò persino un libro, The World Is Our Common Home, con l’obiettivo di sensibilizzare i giovani sull’importanza della sostenibilità. Il progetto divenne persino uno strumento diplomatico. Le ambasciate turche in tutto il mondo lo utilizzarono per dimostrare l’impegno della Turchia nella lotta contro la crisi climatica; il ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavuşoğlu, enfatizzò il legame tra l’iniziativa e i valori culturali e religiosi della Turchia:
Come membri di una religione che proibisce lo spreco e di una civiltà che bacia il pane caduto a terra prima di mangiarlo, ci impegniamo a guidare questa battaglia globale contro i rifiuti.
Ma appena qualche settimana dopo il lancio del progetto, la Cina annunciò un cambiamento epocale: non avrebbe più accettato rifiuti stranieri. Una decisione che pose fine a decenni di dipendenza globale del Paese come principale destinazione per i rifiuti plastici occidentali e svelò l’inganno dietro il sistema internazionale del riciclaggio.
Nei primi anni Novanta, la Cina assorbiva circa la metà di tutta la plastica destinata al riciclaggio a livello globale. Materiali di scarto come sacchetti di plastica impolverati, cannucce usate, cartoni di polistirolo e imballaggi vari venivano trasportati attraverso migliaia di chilometri di oceano per raggiungere villaggi cinesi specializzati nella selezione e nel trattamento di questi rifiuti. All'inizio degli anni 2000, gli Stati Uniti avevano trasformato la plastica scartata in uno dei loro principali prodotti di esportazione verso la Cina. Allo stesso modo, l'Unione Europea, con la Germania in testa, spediva enormi quantità di plastica in Estremo Oriente.
Molti Paesi occidentali, trovandosi improvvisamente sommersi dai propri rifiuti, cercarono alternative rapide. Invece di ridurre la produzione di plastica o migliorare i propri impianti di riciclaggio, scelsero di dirottare le esportazioni verso nuovi centri disposti ad accettare i rifiuti al prezzo più basso. Così, nel giro di pochi mesi, le catene di approvvigionamento della spazzatura globale furono reindirizzate. I risultati furono immediatamente visibili. Sacchi di rifiuti plastici greci iniziarono ad apparire in Liberia, mentre le spiagge tunisine venivano invase da plastica italiana. L’Indonesia, ex colonia olandese, si trovò sommersa da detriti plastici provenienti dai Paesi Bassi, mentre la Polonia dovette istituire una speciale unità di polizia ambientale per monitorare il flusso di rifiuti tedeschi che arrivavano illegalmente sul suo territorio. Le esportazioni di rifiuti plastici dall’Europa all’Africa quadruplicarono, mentre la Malesia divenne il nuovo hub globale per i rifiuti plastici provenienti dagli Stati Uniti. In alcuni casi, le tensioni diplomatiche raggiunsero livelli critici, come quando le Filippine minacciarono addirittura il Canada di intraprendere azioni legali per aver spedito container pieni di pannolini sporchi a Manila.
In questo caos globale, la Turchia emerse come uno dei principali destinatari di rifiuti plastici, proprio mentre il governo turco promuoveva il suo ambizioso progetto Rifiuti Zero. Nel giro di un anno dal divieto cinese, oltre 200.000 tonnellate di rifiuti finirono invece nel sud-est della Turchia. Adana e le aree circostanti divennero uno dei principali snodi per il trattamento — spesso illegale — di rifiuti plastici provenienti dall’Europa.
Le contraddizioni erano sconcertanti: da un lato, la Turchia si presentava come un modello di sostenibilità e gestione responsabile dei rifiuti, ricevendo elogi internazionali e riconoscimenti ufficiali; dall’altro, le sue campagne e i suoi campi agricoli venivano invasi da tonnellate di plastica estera, spesso non riciclabile o contaminata, generando crisi locali, come quella vissuta da İzzettin Akman.
Nel commercio globale dei rifiuti, la Turchia rappresenta il crocevia di un fenomeno che oscilla tra la gestione inefficiente e un vero e proprio sistema criminale. Aziende intermediarie che operano nel settore della gestione dei rifiuti hanno trovato un’opportunità redditizia, alimentata da un sistema che incentiva economicamente l’esportazione dei rifiuti piuttosto che il loro trattamento. Particolare è il caso del Regno Unito che dopo la Brexit ha affrontato una crescente crisi logistica, con carenza di camionisti e accumuli di rifiuti che hanno fatto lievitare i costi di gestione. Quando la Cina ha chiuso le porte alle importazioni di rifiuti, il Paese si è trovato con montagne di plastica da smaltire e ha scelto di affidarne la gestione a chiunque fosse disposto ad accettarla, spesso senza controlli adeguati. Nel sistema britannico, un mediatore di rifiuti poteva guadagnare fino a 70 sterline per ogni tonnellata di plastica dichiarata come “raccolta per il riciclaggio”, un incentivo che ha portato a un’espansione incontrollata del settore. Il risultato? Decine di migliaia di operatori privi di licenza hanno iniziato a esportare rifiuti senza garanzie sul loro effettivo riciclo, trasformando la filiera dei rifiuti in un colossale sistema di sfruttamento ambientale. In pochi anni, circa la metà della plastica dichiarata come riciclata nel Regno Unito ha iniziato ad essere spedita in Turchia. Nel giro di tre anni dal lancio del Progetto Rifiuti Zero, oltre 750.000 tonnellate di plastica europea sono state dirottate verso l’Anatolia, rendendo la Turchia il più grande importatore mondiale di rifiuti plastici. L’equivalente di un camion carico di plastica straniera entrava nel Paese ogni sei minuti.
La situazione sollevò l’indignazione degli ambientalisti locali e internazionali. Diverse organizzazioni iniziarono a monitorare l’arrivo di rifiuti stranieri, utilizzando droni e GPS nascosti all’interno delle bottiglie di plastica per tracciare i movimenti dei rifiuti europei verso la Turchia. I risultati furono sconcertanti: tonnellate di rifiuti provenienti da Regno Unito, Germania e altri Paesi europei venivano scaricate illegalmente nei campi turchi.
La situazione raggiunse livelli critici quando, nel 2021, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan annunciò la costruzione di un gigantesco impianto petrolchimico ad Adana, con l’obiettivo di aumentare la produzione nazionale di plastica. La Turchia quindi non avrebbe più cercato di nascondere il problema dietro una retorica di sostenibilità, ma si sarebbe gettata con determinazione nel mercato globale della produzione di plastica, con una capacità prevista di oltre 1 miliardo di kg all’anno, equivalenti a 60 miliardi di bottiglie di plastica. Non ci sarebbe più stato bisogno di droni per scoprire il destino della plastica: sarebbe stato visibile ovunque, prodotto su scala industriale. La promessa di una Turchia “Rifiuti Zero” si è trasformata in un incubo ambientale, lasciando dietro di sé terre contaminate, ecosistemi distrutti e comunità locali costrette a pagare il prezzo delle scelte sbagliate fatte altrove.