Qualche anno fa il World Values Survey, un progetto di ricerca internazionale su larga scala, ha chiesto a più di 73.000 persone in 57 Paesi se ritenessero la democrazia un buon sistema di governo: sebbene il 92% abbia risposto affermativamente, il sondaggio ha rivelato come, negli ultimi dieci anni, vi sia stato un netto incremento della domanda di leader forti “che non debbano preoccuparsi di parlamenti o elezioni“, e come la fiducia nei governi e nei partiti politici sia scesa ai minimi storici. Sembra, quindi, che l’idea della democrazia piaccia, ma la sua realtà sia mal tollerata.
Anche la fiducia nelle istituzioni democratiche sta visibilmente calando. Negli ultimi cinque anni, l’ufficio di ricerca dell’Unione Europea ha rilevato che meno del 30% degli europei ripone fiducia nei parlamenti e nei governi nazionali. Ovunque in Occidente, i partiti politici, attori chiave delle nostre democrazie, risultano essere tra le istituzioni meno affidabili della società. Un certo grado di scetticismo è essenziale in una società libera, ma ci si deve chiedere fino a che punto questa sfiducia possa diffondersi prima di trasformarsi in vera e propria avversione.
Il fatto che stiamo vivendo una realtà di turbolenza, volatilità, crisi e incertezza spiega perché eventi che Perrow ha definito “incidenti normali” si stiano verificando con sempre maggiore frequenza: eventi imprevisti che irrompono nelle nostre vite politiche e sociali, come i referendum concepiti per la ratifica di decisioni già prese che vengono respinte, come l’accordo di pace in Colombia o la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea.
I nostri sistemi politici sembrano incapaci di gestire la crescente complessità del mondo e impotenti nel rispondere a entità che offrono semplificazioni rassicuranti, anche a costo di distorsioni grossolane della realtà. Chi oggi parla di limiti, responsabilità e interessi condivisi si espone alla sconfitta di fronte a chi stabilisce nette demarcazioni tra Noi e Loro o propone un’opposizione tra l’establishment e il popolo, tracciando confini che distribuiscono responsabilità e innocenza in modo rassicurante.
In tempi di incertezza, poche cose sono più efficaci del trovare un colpevole, poiché ciò esonera dalla difficoltà di costruire una responsabilità collettiva. Poco importa se molti candidati propongono soluzioni irrealizzabili per problemi mal definiti, purché problemi e soluzioni acquisiscano il rilievo netto di un muro, o siano gratificanti come l’essere parte di un Noi indiscutibile. E quindi alla fine invece di votare per risolvere problemi, si vota per esprimere un’insoddisfazione, con la logica conseguenza che vengono eletti coloro che preferiscono guidare proteste contro i problemi, piuttosto che lavorare per risolverli. La competenza o l’incompetenza di un candidato diventano elementi secondari: ciò che conta è la capacità di rappresentare meglio degli altri l’insoddisfazione generale.
La democrazia è un insieme di valori e procedure che devono essere compresi per poterli bilanciare e armonizzare. Partecipazione dei cittadini, pareri degli esperti, sovranità nazionale, tutela delle minoranze, stato di diritto, autorità indipendenti, responsabilità, riflessione e rappresentanza sono tutti elementi importanti. Come ha sottolineato Daniel Innerarity, i nuovi populismi utilizzano la retorica democratica perché si appropriano di uno solo di questi valori, assolutizzandolo e trascurando tutti gli altri. Così facendo, la democrazia si riduce al momento elettorale, oppure alla logica del consenso assoluto. Se i populismi sono così accettati da ampi settori della popolazione, non è perché vi siano più fascisti, ma perché vi sono più persone convinte che la democrazia possa essere ridotta a un unico valore.
Come possiamo impedire che la semplificazione e il puro rifiuto siano così politicamente redditizi? Perché valori come precisione e responsabilità politica sono così raramente riconosciuti? Solo una democrazia complessa è una democrazia completa.
Daniel Innerarity
Eppure, nonostante questa instabilità, si riflette poco sugli strumenti delle nostre democrazie. È quasi un’eresia chiedersi se le elezioni, nella loro forma attuale, siano uno strumento antiquato per convertire la volontà popolare in governi e politiche.
Dibattiamo sugli esiti delle elezioni e dei referendum senza considerare i loro principi. Chiediamo alle persone di esprimere un parere anche senza averle stimolate a pensare, benché siano state bombardate da ogni forma di propaganda nei mesi precedenti il voto. Votare significa delegare per i prossimi anni. E questo sistema di delega poteva essere necessario quando la comunicazione era lenta e le informazioni limitate, ma appare ormai fuori contesto. Già nel XVIII secolo, Rousseau osservava che le elezioni, da sole, non garantivano la libertà: “Il popolo inglese si inganna quando crede di essere libero; lo è solo durante l’elezione dei membri del parlamento: una volta eletti, il popolo torna incatenato e non è più nulla“.
Se non aggiorniamo la nostra tecnologia democratica, potremmo trovarci di fronte a un sistema irreparabile. Non è bizzarro che il voto, considerato il più alto dovere civico, si riduca a un’azione individuale e silenziosa in una cabina elettorale? È davvero questo il luogo in cui si trasformano sentimenti personali in priorità collettive? È qui che il bene comune è meglio garantito? Rifiutando di modificare le procedure, abbiamo reso l’agitazione e l’instabilità politica caratteristiche della democrazia occidentale. In Italia i governi durano mediamente un anno e due mesi, negli ultimi 5 anni il Regno Unito ha cambiato 5 premier, e nel 2010 il Belgio è diventato lo zimbello d’Europa non riuscendo a formare un governo per 541 giorni.
Innumerevoli società occidentali sono afflitte da quella che David Van Reybrouck ha definito “sindrome da stanchezza democratica”. I sintomi includono la febbre referendaria, il calo di iscrizioni ai partiti, la bassa affluenza alle urne, l’impotenza dei governi, la paralisi politica sotto il controllo dei media e dei sondaggi, la diffusa sfiducia e i moti populisti. Ma questa sindrome non è tanto causata dalle persone, dai politici o dai partiti, quanto dalla procedura stessa. Non è la democrazia il problema, ma il voto. Dove i cittadini possono ottenere informazioni corrette, interagire e decidere collettivamente il loro futuro? Dove possono influire sul destino delle loro comunità? Non certamente nella cabina elettorale.
Sembra che la causa principale della stanchezza democratica sia il nostro fondamentalismo elettorale, per cui veneriamo le elezioni ma disprezziamo gli eletti. Il fondamentalismo elettorale è la convinzione che la democrazia sia inconcepibile senza elezioni e che queste siano una precondizione essenziale e indispensabile. Questa cieca fiducia nelle urne come fondamento della sovranità popolare si manifesta anche nella diplomazia internazionale. Quando i Paesi occidentali auspicano che Stati come Congo, Iraq o Afghanistan diventino democrazie, in realtà intendono che questi Stati devono tenere elezioni secondo il nostro modello.
È curioso, però, come l’umanità abbia praticato la democrazia per quasi 3000 anni, ma solo negli ultimi 200 tramite le elezioni. Il contesto in cui furono ideate era completamente diverso da quello attuale: non esistevano partiti, mass media, suffragio universale o Internet. Le elezioni sono il “combustibile fossile” della politica: un tempo hanno alimentato la democrazia, ma ora ne rivelano i limiti.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, le democrazie occidentali erano dominate da grandi partiti di massa che, attraverso una rete di organizzazioni, stabilivano un legame diretto con la vita dei cittadini, garantendo stabilità e un comportamento di voto prevedibile. Questo cambiò negli anni Ottanta e Novanta, quando i media divennero commerciali, gli indici di ascolto centrali e i partiti si trasformarono, apparendo più come entità statali che intermediari tra cittadini e potere. Le elezioni divennero quindi battaglie mediatiche per conquistare l’elettorato, ma il risultato fu una crescente irritazione verso la politica e un declassamento del dibattito a una becera discussione da bar.
Il sociologo Colin Crouch ha descritto questo nuovo ordine come post-democrazia: le elezioni esistono e possono cambiare i governi, ma il dibattito elettorale è uno spettacolo gestito da esperti della comunicazione su una ristretta gamma di temi. Con l’avvento dei social media, poi, la politica è diventata un evento minuto per minuto, e i cittadini possono reagire in tempo reale, generando una cacofonia crescente: le nuove tecnologie hanno dato voce ai cittadini, ma il loro impatto ha reso più difficile la vita politica e inasprito il dibattito.
La prima cosa che una visione complessa ed evoluta della democrazia ci insegna è che essa è un processo. Una democrazia di qualità è più complessa di un semplice applauso plebiscitario. Deve esserci spazio per il rifiuto e la protesta, certo, ma anche per la costruzione e la trasformazione. La democrazia deve articolare una complessità istituzionale più ampia rispetto a chi la intende solo come una relazione verticale tra un leader e le masse. Una buona vita pubblica e l’adozione delle migliori decisioni non si realizzano semplicemente con il voto, basato su un’ambigua informazione (come nel caso della Brexit) o con dibattiti dominati dalla scarsa aderenza alla realtà (come dimostrato da Trump).
Il coinvolgimento della società nel governo deve essere più sofisticato rispetto a quanto avviene nei processi elettorali o attraverso il web. È necessario un coinvolgimento continuo, attuato mediante una varietà di procedure: alcune dirette, altre rappresentative; alcune basate sulla maggioranza, altre su logiche differenti. Alcuni politologi sostengono che il sorteggio possa rappresentare una soluzione, se non definitiva, quantomeno utile per favorire il coinvolgimento diretto e la responsabilizzazione dei cittadini. Questo approccio potrebbe inoltre contrastare uno dei problemi principali delle nostre democrazie: la polarizzazione della società attorno a semplici contrapposizioni, che non favorisce processi democratici di qualità. Già nell’antica Atene, la maggior parte delle funzioni pubbliche veniva assegnata tramite questo metodo. Paesi come gli Stati Uniti, l’Australia e i Paesi Bassi hanno sperimentato con successo l’estrazione a sorte. In Irlanda, una convenzione costituzionale, composta per un terzo da politici eletti e per due terzi da cittadini estratti a sorte, ha permesso di discutere temi fondamentali con maggiore coesione. Se questa procedura fosse stata adottata nel Regno Unito prima della Brexit, è possibile che il risultato sarebbe stato diverso. Un gruppo di cittadini estratti a sorte avrebbe potuto riflettere meglio sulla questione, ascoltare esperti e formulare una decisione ponderata.