C’era una volta un’azienda che voleva organizzare il mondo delle informazioni. Tutte le informazioni. Nessuna eccezione. Era il 1998 e Google, ancora giovane e ambiziosa, prometteva trasparenza e semplicità. Poi arrivarono i problemi: cause legali, accuse di monopolio, brevetti contesi. Non erano solo nuvole sul suo cielo azzurro, ma tempeste che minacciavano di abbattere la sua ascesa. La lezione appresa dalla caduta quasi fatale di Microsoft nel decennio precedente era chiara: mai lasciare che le parole scritte diventino prove.
Nel 2008, quando Google fu sottoposta a controlli antitrust per un accordo pubblicitario con Yahoo, i vertici inviarono una nota interna. “Pensateci due volte“, avvertivano i dirigenti, suggerendo ai dipendenti di non speculare, non essere sarcastici e soprattutto non scrivere nulla di potenzialmente incriminante. La messaggistica istantanea dell’azienda fu impostata su “off the record“: tutte le conversazioni venivano eliminate entro 24 ore. Era il primo atto di un dramma che avrebbe definito il comportamento aziendale per i successivi 15 anni. La cultura aziendale di Google divenne un esercizio di sottrazione.
Il modo in cui Google ha sviluppato questa cultura diffidente è stato ricostruito da centinaia di documenti e testimonianze in tre processi antitrust contro la società di Mountain View nell’ultimo anno.
Il fantasma di Microsoft
Google è stata fondata nel settembre 1998, pochi mesi dopo che la società tecnologica più dominante dell’epoca, Microsoft, era stata citata in giudizio dal Dipartimento di Giustizia per violazioni antitrust. Microsoft aveva lasciato tracce di sangue nella sua scia: email e documenti interni erano stati utilizzati per costruire un devastante caso antitrust contro di loro. Frasi come “Dobbiamo continuare la nostra jihad” o “Vogliamo che accoltelli il bambino” (in riferimento ad Apple) erano diventate simboli dell’arroganza aziendale. Microsoft perse la causa, anche se il verdetto fu in parte ribaltato in appello. Tuttavia, fu un’esperienza di quasi morte sufficiente a rendere Google diffidente: non avrebbe permesso che sarebbe accaduto lo stesso. La tecnologia era cambiata, ma l’obiettivo rimaneva identico: non lasciare prove.
Nel 2011, l’azienda di Mountain View pubblicò un manuale intitolato Antitrust Basics, che raccomandava ai dipendenti di evitare metafore di guerra o sport, di non parlare di “mercati” o “quote di mercato” e di abbandonare qualsiasi linguaggio che potesse sembrare anche lontanamente monopolistico. Era un’azienda che imparava a parlare come un avvocato. Espressioni innocenti come “mettere i prodotti nelle mani dei clienti” venivano scartate, considerate troppo rischiose, perché “può essere interpretata come l’espressione di un intento di negare la scelta ai consumatori“.
Il giudice James Donato della Corte distrettuale degli Stati Uniti per il distretto settentrionale della California ha affermato che c’era “una radicata cultura sistemica di soppressione delle prove rilevanti all’interno di Google” e che il comportamento dell’azienda era “un assalto frontale alla giusta amministrazione della giustizia“.
Julia Tarver Wood, avvocato del Dipartimento di Giustizia, ha dichiarato durante un’udienza di agosto che i dipendenti di Google “si riferivano a queste chat off-the-record come ‘Vegas’. Ciò che accade a Las Vegas resta a Las Vegas“. Google ha sostenuto di aver fatto del suo meglio per fornire al governo tutti i documenti di cui disponeva e che, in ogni caso, il Dipartimento di Giustizia non ha mai dimostrato che le conversazioni cancellate fossero cruciali per il suo caso. Ma per l’accusa Google sembrava determinata a mantenere le sue conversazioni esattamente così: effimere, irraggiungibili, invisibili.
Nel 2023, il colosso ad-tech ha annunciato un cambiamento nelle sue procedure: le chat sarebbero state salvate automaticamente e la cronologia attivata di default. Era un tentativo di rimediare a una reputazione in caduta libera. Ma era davvero un cambiamento significativo o solo un gesto simbolico? Alcuni dipendenti hanno reagito immediatamente cercando nuovi modi per comunicare senza lasciare tracce, ad esempio attraverso l’uso di un gruppo su WhatsApp, come se vivessero in una tensione costante tra innovazione e controllo.
Ed è strano notare come l’azienda che archivia l’intera conoscenza mondiale lotti per nascondere le sue decisioni interne. Un paradosso che non ha solo valenza legale, ma è anche una questione morale. Come può un’azienda, che si presenta come campione di trasparenza e apertura, operare con una tale ossessione per la segretezza?
Questo articolo si basa sulle inchieste del New York Times a firma di David Streitfeld.