La Rivoluzione iraniana del 1978-1979 fu l’esplosione di un malessere profondo, maturato nel tempo, che travolse la monarchia dello shah Mohammad Reza Pahlavi, al potere dal 1941. Il movimento rivoluzionario, ampio e trasversale, pose fine alla dinastia Pahlavi e diede vita alla Repubblica Islamica dell’Iran, tuttora esistente. Ma le origini della rivolta affondano in un passato ben più remoto del regno pahlavi.
La rivoluzione
Alla fine del XIX secolo, l’Iran attraversava una fase di crescente instabilità politica e sociale. Il malcontento serpeggiava sia tra gli intellettuali laici sia tra gli esponenti del clero sciita, entrambi critici nei confronti della dinastia Qajar, accusata di complicità o, peggio, di passività di fronte all’ingerenza straniera negli affari economici e politici del Paese.
Fu in questo clima che, tra il 1905 e il 1907, esplose la cosiddetta Rivoluzione costituzionale. La popolazione scese in piazza, animata da un profondo desiderio di cambiamento: lunghi scioperi e proteste coinvolsero le principali città dell’Iran, sfidando il potere dello Shah Mozaffar al-Din (1896–1907). Nell’ottobre 1906, sotto la pressione della rivolta, venne promulgata una costituzione che, per la prima volta, limitava l’autorità monarchica e istituiva un’assemblea rappresentativa eletta, il Majlis. A questa seguirono le “leggi fondamentali supplementari”, che rafforzarono il processo di democratizzazione e segnarono una svolta: per la prima volta, una rivolta popolare era riuscita a produrre un cambiamento istituzionale duraturo.
Ma il fragile ordine costituzionale non resistette a lungo. Dopo anni di instabilità, nel febbraio 1921 un colpo di Stato militare pose fine al dominio Qajar. L’artefice dell’operazione fu Reza Khan, un ufficiale della brigata cosacca persiana, che salì al trono come Reza Shah Pahlavi, fondando la dinastia Pahlavi.
Reza Shah: autorità centrale e modernizzazione
Reza Shah intraprese un vasto programma di modernizzazione con l’obiettivo di rafforzare lo Stato centrale e allineare l’Iran ai modelli europei. Una delle sue priorità fu ridimensionare l’influenza del clero sciita: istituì un sistema scolastico laico e fondò, nel 1935, l’Università di Teheran, ispirata agli atenei occidentali e aperta anche alle donne. Le riforme toccarono anche il sistema giudiziario: furono promulgate leggi secolari e vennero vietate le funzioni notarili e giudiziarie al clero, sostituite da notai statali.
In ambito culturale, Reza Shah impose una modernizzazione dei costumi: nel 1932 venne introdotto l’obbligo dell’abbigliamento occidentale e, nel 1936, fu proibito esplicitamente l’uso del velo. Ma l’autoritarismo del suo governo e la repressione del dissenso minarono il consenso iniziale. Un punto di svolta fu la rivolta nella moschea di Goharshad (13 luglio 1935), brutalmente repressa dall’esercito, che portò nel 1941, in piena Seconda guerra mondiale, Reza Shah ad abdicare, data anche l’invasione anglo-sovietica dell’Iran. Il trono passò al figlio, Mohammad Reza Pahlavi.
Il petrolio, Mossadeq e la crisi dell’indipendenza
L’occupazione del Paese non solo avvicinò ulteriormente l’Iran alle potenze occidentali, ma provocò anche gravi conseguenze interne: un’impennata dell’inflazione, carenze di beni essenziali e una crescente presenza militare straniera alimentarono il malcontento popolare e un rinnovato senso di nazionalismo. In questo contesto, il Majlis, controllato dai grandi proprietari terrieri, si dimostrò incapace di offrire soluzioni concrete. La sinistra comunista, invece, riuscì a raccogliere consensi crescenti grazie all’azione del Partito del Tudeh.
Nel frattempo, la questione petrolifera divenne il fulcro del dibattito politico. La Anglo-Iranian Oil Company, sotto controllo britannico, traeva enormi profitti dall’oro nero iraniano, lasciando però al governo locale solo una minima parte dei ricavi. Fu così che, nel 1951, sospinto dal movimento nazionalista guidato da Mohammad Mossadeq, il Majlis approvò la nazionalizzazione dell’industria petrolifera. Nominato primo ministro, Mossadeq affrontò con determinazione l’ostilità internazionale, entrando in conflitto anche con lo Shah.
La crescente popolarità di Mohammad Mossadeq, le sue politiche apertamente antioccidentali e la sua fermezza nel processo di nazionalizzazione dell’industria petrolifera generarono tensioni sempre più forti con lo Shah. Nel giugno del 1953, Stati Uniti e Regno Unito unirono le forze per rovesciare il primo ministro attraverso l’Operazione Ajax. Con la collaborazione della CIA, lo Shah rimosse Mossadeq dal potere. Seguirono quattro giorni di disordini e proteste, durante i quali Mohammad Reza Pahlavi lasciò temporaneamente il Paese. Il 19 agosto 1953, reparti dell’esercito fedeli allo Scià — sostenuti e finanziati da Washington e Londra — riuscirono a sconfiggere le forze lealiste a Mossadeq, permettendo al monarca di fare ritorno in Iran. Mossadeq fu arrestato e incarcerato.
Il clero contro la modernizzazione
Fin dai tempi di Reza Shah, il clero sciita aveva espresso forte opposizione alle riforme modernizzatrici, considerate un attacco diretto ai valori dell’Islam. Nel 1944, un giovane religioso, Ruhollah Khomeini, pubblicò Kashf al-Asrar (“La scoperta dei segreti”), un feroce pamphlet contro le politiche anticlericali del regime.
Le tensioni raggiunsero il culmine nel 1963, quando lo Shah lanciò la cosiddetta Rivoluzione Bianca, un programma di riforme che includeva la redistribuzione delle terre, nuovi diritti per le donne e una maggiore apertura verso i non-musulmani. Il clero reagì con forza, giudicando queste misure come una pericolosa deviazione dall’Islam. Khomeini, ormai diventato ayatollah, pronunciò un discorso infuocato a Qom e fu immediatamente arrestato. Le proteste che seguirono furono represse con brutalità, causando numerose vittime.
Dopo aver condannato pubblicamente anche la concessione dell’immunità diplomatica alle truppe americane presenti in Iran, Khomeini fu costretto all’esilio nel 1965, prima in Turchia e poi in Iraq. Da lì continuò instancabilmente la sua attività di opposizione al regime.
Nel frattempo, anche la resistenza armata cominciava a prendere forma: gruppi come i Fedayan-e Khalq e i Mojahedin-e Khalq iniziarono a colpire obiettivi legati al potere monarchico. Il terreno per una rivoluzione era ormai pronto.
Crisi economica, rivolte e crollo della monarchia
Nel 1976, l’economia iraniana entrò in una fase critica. L’improvviso aumento delle entrate petrolifere, anziché portare prosperità diffusa, fu gestito in modo inefficace, provocando un’impennata dell’inflazione, un aumento della disoccupazione e un crescente malcontento sociale. Alla crisi economica si aggiunse una diffusa percezione che la modernizzazione stesse erodendo l’identità culturale iraniana, percezione acuita dalla massiccia presenza di stranieri nel Paese, in particolare americani. Questo clima di disagio e tensione sfociò presto in un’escalation di proteste. Le prime manifestazioni furono organizzate da intellettuali laici e movimenti progressisti, ma nel 1978 la leadership passò nelle mani del clero, con l’ayatollah Khomeini divenuto ormai il simbolo indiscusso della rivolta.
Il punto di svolta arrivò l’8 settembre 1978, passato alla storia come il “venerdì nero“: a Teheran, l’esercito aprì il fuoco su una folla di circa 20.000 manifestanti, uccidendone decine. Il massacro suscitò un’ondata di indignazione in tutto il Paese e accelerò il crollo del regime. Espulso dall’Iraq, Khomeini trovò rifugio in Francia, da dove continuò a guidare la protesta popolare servendosi di reti telefoniche e cassette audio diffuse clandestinamente.
Lo sciopero dei lavoratori del settore petrolifero, cuore pulsante dell’economia iraniana, paralizzò il Paese. Lo Shah, ormai indebolito, tentò alcune concessioni per placare la protesta, ma ormai era troppo tardi. Il 16 gennaio 1979 abbandonò l’Iran, lasciando il governo provvisorio guidato da Shapour Bakhtiar in balìa degli eventi, incapace di arginare l’avanzata della rivoluzione, che ormai sembrava inarrestabile.
La nascita della Repubblica islamica
Il 1° febbraio 1979, Khomeini fece ritorno trionfale in Iran dopo quindici anni di esilio. Pochi giorni dopo, nominò Mehdi Bazargan primo ministro di un governo provvisorio. L’11 febbraio, con le forze armate che dichiararono la propria neutralità, il regime monarchico crollò definitivamente. Bazargan cercò di guidare una transizione moderata, ma il potere effettivo era saldamente nelle mani del Consiglio della Rivoluzione islamica, creato da Khomeini. In breve tempo, vennero istituiti tribunali rivoluzionari, furono eseguite condanne capitali contro ex funzionari del regime e si intensificò la repressione politica.
Il 30 e 31 marzo 1979, un referendum popolare sancì la nascita della Repubblica islamica dell’Iran. La nuova costituzione, approvata poco dopo, attribuiva il potere supremo al faqih, la guida religiosa suprema, carica che fu assegnata a Khomeini, consolidando così la natura teocratica del nuovo Stato.
Nel novembre dello stesso anno, la presenza dello Shah negli Stati Uniti per cure mediche scatenò nuove tensioni. Un gruppo di studenti khomeinisti occupò l’ambasciata americana a Teheran, dando il via alla crisi degli ostaggi, che si protrasse per 444 giorni. Due giorni dopo l’inizio dell’occupazione, Bazargan si dimise da primo ministro, segnando il definitivo tramonto di ogni tentativo di transizione moderata. Il Consiglio della Rivoluzione assunse così il controllo totale del potere, avviando una rottura irreversibile con gli Stati Uniti e consolidando la teocrazia guidata dal clero sciita.
Gli effetti politici della rivoluzione
La costituzione approvata in seguito alla rivoluzione si basava sul principio della wilayat al-faqih (la tutela del giurista islamico), che conferiva al Leader Supremo ampi poteri religiosi e politici. Khomeini divenne così la guida assoluta del nuovo stato teocratico, fondato sulla legge islamica sciita duodecimana. Il nuovo governo abolì la monarchia e creò nuove istituzioni come l’Assemblea consultiva islamica e il Consiglio dei Guardiani, composto da 12 esperti islamici con poteri di veto legislativo e di controllo elettorale; sebbene si introdussero elezioni, i candidati dovevano ricevere l’approvazione del Consiglio.
Il nuovo regime represse ogni forma di dissenso, censurando media, arte e cultura. Le istituzioni religiose esercitavano un controllo capillare sulla società. Le donne, pur non escluse formalmente dalla politica, furono fortemente limitate da nuove leggi sulla moralità e sull’abbigliamento, come l’obbligo del velo. La crisi degli ostaggi all’ambasciata statunitense portò alla fine delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti e alla rottura dei rapporti con diversi Paesi europei. Inoltre, l’Iran adottò una linea politica antisionista e interruppe le relazioni con Israele. Le tensioni culminarono nella guerra Iran-Iraq (1980-1988), un conflitto devastante che non portò a una chiara vittoria e lasciò profonde ferite economiche e sociali.
Dopo la morte di Khomeini nel 1989, diversi tentativi riformisti si scontrarono con la rigidità del sistema; il suo successore, Ali Khamenei, è ancora oggi la Guida Suprema. E sebbene esistano fazioni riformiste, il Consiglio dei Guardiani mantiene il controllo sulle candidature e sulle elezioni, alimentando la percezione di un sistema elettorale controllato e autoritario. La repressione politica prosegue: le proteste sono frequenti, ma vengono spesso soffocate con violenza. La Guardia Rivoluzionaria e la polizia morale mantengono l’ordine e reprimono il dissenso.
Gli effetti economici della rivoluzione
Prima della rivoluzione iraniana, lo Shah aveva cercato di occidentalizzare profondamente il Paese, puntando sull’industrializzazione e sulla modernizzazione economica. Questi sforzi portarono a una rapida crescita, trasformando l’Iran da un’economia agricola a una industriale e orientata all’esportazione. Le politiche di liberalizzazione del credito, privatizzazione e controllo delle importazioni favorirono lo sviluppo di un sistema di libero mercato. Il welfare sociale fu ampliato, e si investirono risorse nell’istruzione e nella sanità, anche grazie agli introiti petroliferi che, negli anni Settanta, crebbero esponenzialmente.
La classe media urbana si espanse, così come l’accesso delle donne all’istruzione e a professioni qualificate. Tuttavia, la dipendenza dal petrolio e il crescente divario tra centri urbani e aree rurali, unito al malcontento verso l’influenza straniera e le diseguaglianze economiche, alimentarono l’insoddisfazione popolare. Nonostante i progressi economici, il regime dello Shah fu percepito come distante dai bisogni della popolazione.
Con la caduta della monarchia e l’ascesa al potere di Khomeini, l’Iran avviò una radicale trasformazione economica ispirata alla legge islamica. L’obiettivo della nuova Repubblica Islamica era creare un sistema economico autosufficiente, etico e funzionale alla morale religiosa. La costituzione del 1979 definì l’economia come uno strumento per promuovere l’obbedienza a Dio e garantire i mezzi materiali necessari per condurre una vita retta.
Il governo teocratico nazionalizzò banche, assicurazioni e industrie. Lo Stato divenne l’attore economico dominante, riducendo drasticamente il ruolo del settore privato. Venne inoltre creato un sistema di welfare destinato a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni rurali e svantaggiate, con interventi in ambito educativo, sanitario e infrastrutturale. Dopo la morte di Khomeini, iniziarono dei timidi tentativi di liberalizzazione, con la parziale privatizzazione di alcune attività statali, che diedero luogo a un sistema ibrido tra controllo statale e impresa privata.
Nonostante questi sforzi, l’economia post-rivoluzionaria non raggiunse mai i livelli di crescita precedenti. La prevalenza dello Stato, la sfiducia verso la privatizzazione e il timore dell’influenza straniera ostacolarono lo sviluppo. Il settore privato restò marginale, e buona parte dell’economia rimase informale, con conseguenze sull’equilibrio fiscale, sull’equità dei redditi e sull’efficienza economica. L’industria energetica, pur non essendo più l’unico motore economico, continuò a svolgere un ruolo cruciale, accanto al settore dei servizi, che oggi rappresenta circa il 45% del PIL.
Due costanti caratterizzano l’economia iraniana dagli anni Ottanta: un settore privato debole e un sistema d’investimento instabile. Nonostante diversi tentativi, l’Iran non è mai riuscito a ridurre la disoccupazione, il debito e a stimolare le esportazioni in modo efficace. Inoltre, l’assenza di politiche economiche strutturate ha impedito una crescita sostenuta. Solo in ambiti come l’istruzione e la riduzione della povertà il Paese ha registrato progressi, grazie al welfare generalizzato e al miglioramento dei tassi di alfabetizzazione.
Tuttavia, il potenziale umano formatosi negli ultimi decenni, con una gioventù altamente istruita, non è stato pienamente valorizzato a causa della mancanza di una strategia economica coerente. L’economia resta vulnerabile, stagnante e priva della guida necessaria per uno sviluppo a lungo termine.
Fattori esterni hanno aggravato, poi, le difficoltà. La guerra Iran-Iraq prosciugò le risorse, senza un piano efficace per la ricostruzione. Le sanzioni internazionali, in particolare quelle imposte dagli Stati Uniti dal 2018, hanno impedito all’Iran di partecipare pienamente al commercio globale, infliggendo gravi danni: aumento dell’inflazione, recessione, svalutazione del rial e isolamento finanziario. La contrapposizione tra ideologia politica e sviluppo economico è rimasta così irrisolta.
Gli effetti socioculturali della rivoluzione
L’Iran vanta una delle tradizioni culturali più antiche e stratificate al mondo. Le sue radici affondano negli splendori degli imperi persiani, attraversano il periodo abbaside e giungono fino all’età safavide, in un intreccio continuo tra spiritualità, arte e potere. Nei secoli, l’identità iraniana si è trasformata, modellata dallo zoroastrismo, dall’Islam e da un fitto dialogo con culture esterne. Ma proprio laddove visioni differenti si sovrappongono, il cambiamento può generare tensioni. Tra tutti i momenti di rottura, nessuno ha inciso così profondamente sulla cultura iraniana quanto la Rivoluzione islamica del 1979.
Alla fine degli anni Settanta, la rivolta contro la monarchia prese forma grazie a un’alleanza variegata: religiosi, marxisti, nazionalisti e liberali unirono le forze per mettere fine a un regime percepito come autoritario e distante. Ma la caduta dello Shah non aprì le porte a un nuovo pluralismo. Il nuovo regime impose una rigida interpretazione della Sharīʿa in ogni aspetto della vita pubblica. Le conquiste ottenute durante la Rivoluzione Bianca, come l’ampliamento dei diritti femminili e l’apertura dell’istruzione, furono smantellate. Le università vennero epurate, i partiti politici sciolti e la censura divenne capillare. Le minoranze religiose, in particolare i Bahá’í, furono perseguitate, mentre le donne persero molti dei diritti conquistati: escluse da vari percorsi universitari, penalizzate nei casi di divorzio ed eredità, e obbligate a indossare il velo islamico. L’età legale per il matrimonio fu abbassata a nove anni. In minima parte anche gli uomini furono colpiti da restrizioni simboliche, come il divieto di indossare cravatte o radersi la barba, gesti considerati troppo “occidentali”.
Il clima politico si fece sempre più repressivo. Le Corti rivoluzionarie e le Guardie della Rivoluzione perseguitarono dissidenti, intellettuali, giornalisti e oppositori politici. Amnesty International stima che nei primi anni successivi alla rivoluzione almeno 4.000 persone furono giustiziate, spesso dopo processi sommari o detenzioni in carceri segrete. Tra le vittime si contarono anche donne incinte, minorenni e membri della comunità LGBTQ+, colpita da una vera e propria caccia all’uomo. L’omosessualità venne punita con la fustigazione o con la pena di morte.
Ogni forma di dissenso venne equiparata a un atto di blasfemia. I media furono messi sotto controllo governativo, la libertà di espressione soppressa, il pensiero critico ridotto al silenzio. Ma paradossalmente, alcuni indicatori sociali migliorarono: l’accesso all’istruzione crebbe, la mortalità infantile calò e l’aspettativa di vita è passata dai 54 anni nel 1980 agli oltre 75 nel 2014.
Negli ultimi anni, però, le proteste si sono intensificate. L’uccisione di Mahsa Amini nel 2022, arrestata per non aver indossato correttamente il velo, ha innescato un’ondata di manifestazioni in tutto il Paese. Migliaia di persone sono scese in piazza. Secondo l’ONG Human Rights Activists News Agency, almeno 500 manifestanti sono stati uccisi solo nel 2022, tra cui 69 bambini, e circa 19.000 arrestati.
Eppure, qualcosa si muove. In città come Teheran, molte donne hanno iniziato a circolare senza velo, e – per ora – non vengono punite. Questo gesto di disobbedienza quotidiana potrebbe segnare un allentamento, o almeno un logoramento, del controllo culturale. Ma l’opacità del regime impedisce di capire se si tratti di una vera apertura o solo di una fase transitoria all’insegna dell’oscurantismo fondamentalista.