Quando l’abbandono arrivò, si insinuò lentamente dalla periferia. Le prime a svuotarsi furono le case ai margini della città, seguite dai negozi di alimentari e dalle stazioni di servizio, le cui pompe furono inghiottite dai rampicanti fino a cedere sotto il loro peso. Il cinema, le farmacie, le scuole, le pensiline degli autobus: tutto si svuotò, lasciando dietro di sé edifici fatiscenti e strade deserte. Luoghi un tempo vibranti, come Tyurkmen in Bulgaria, sono ormai abitati solo da poche centinaia di persone, con un declino costante della popolazione che si riflette in centinaia di villaggi fantasma sparsi per il Paese. La Bulgaria ha visto la sua popolazione scendere dai quasi 9 milioni nel 1989 a meno dei 6,5 milioni oggi, un calo demografico tra i più drammatici in tempo di pace. Un fenomeno non isolato: a livello globale, la percentuale di persone che vivono in aree rurali è diminuita di quasi un terzo negli ultimi cinquant’anni, mentre i tassi di urbanizzazione crescono senza sosta.
Ma cosa accade alla natura quando l’uomo scompare? Lo studio di Gergana Daskalova, ecologista specializzata nei cambiamenti ambientali, ha analizzato l’effetto dell’abbandono umano sulla biodiversità in 30 villaggi della Bulgaria, mappando il ritorno delle foreste, la proliferazione di specie vegetali e i cambiamenti nella fauna selvatica. Laddove un tempo c’erano campi coltivati, ora si ergono boschetti di rovi impenetrabili. Non si tratta di un fenomeno isolato. In Polonia, circa il 12% delle terre coltivabili è stato abbandonato dopo la caduta del comunismo e si è ricoperto di verga d’oro canadese, una pianta invasiva che ha colonizzato il 75% dei campi lasciati incolti, riducendo del 60%-70% gli impollinatori selvatici e dimezzando la popolazione di uccelli. Simili processi stanno avvenendo in tutto il mondo: uno studio del 2020 pubblicato su Nature Communications ha stimato che tra il 1992 e il 2015, circa 400 milioni di ettari di terre agricole, un’area pari all’Unione Europea, sono stati abbandonati globalmente. Negli Stati Uniti, oltre 30 milioni di ettari di terreni agricoli sono stati lasciati a loro stessi dagli anni Ottanta. Tuttavia, l’abbandono non sempre porta a una rigenerazione ecologica spontanea. In molti casi, il predominio di specie invasive o la mancanza di un’adeguata successione ecologica porta alla formazione di “deserti biologici”.
Le notizie sull’abbandono di vaste porzioni del nostro pianeta evocano immagini di un Eden selvaggio che si riafferma tra le rovine dell’umanità. Senza l’interferenza dell’uomo, la natura sembrerebbe riprendere il suo dominio: i cervi vagano tra le strade delle città deserte, i rampicanti si fanno strada tra le crepe del cemento, le foreste riconquistano i campi abbandonati e il cielo torna limpido. Durante i lockdown del 2020, molte persone hanno avuto un assaggio di questa possibilità, osservando la fauna selvatica riconquistare temporaneamente gli spazi urbani. E ciò ha alimentato il dibattito, con alcuni che proclamavano: “Gli umani sono il virus” e che, senza di loro, “la natura sta guarendo“. Ma questa visione idilliaca di un mondo rigenerato dalla nostra assenza affonda le sue radici in concezioni ecologiche ormai superate.
Il principale promotore di questa idea fu il botanico Frederick Clements, che alla fine del XIX secolo formulò la teoria della successione ecologica. Secondo questa ipotesi, qualsiasi ambiente alterato dall’uomo segue una progressione naturale verso uno stato di equilibrio, noto come “climax ecologico”. Un campo coltivato, per esempio, dapprima viene invaso da piante pioniere a crescita rapida, poi da arbusti, fino a evolversi in una foresta stabile. Questa visione suggeriva che, una volta rimosso l’elemento disturbante – in questo caso, l’uomo – la natura avrebbe ripreso il suo corso verso un ecosistema maturo e autosufficiente. All’inizio del XX secolo, questa teoria divenne molto popolare, poiché offriva la rassicurante idea che, nonostante l’impatto umano, la natura fosse sempre in grado di rigenerarsi. Con il tempo, però, gli scienziati hanno smontato questa concezione deterministica. Le comunità ecologiche non seguono un percorso lineare verso un climax permanente, ma piuttosto attraversano fasi cicliche di crescita, collasso, diversificazione e stabilizzazione. William Cronon sottolineò nel 1995 che la natura non è un organismo che si sviluppa in modo prevedibile:
Molte idee popolari sull’ambiente si basano sulla convinzione che la natura possa mantenere il suo equilibrio indefinitamente se solo l’uomo smettesse di interferire. Queste storie sono nostre, non della natura.
Oggi sappiamo che l’assenza umana non porta necessariamente a un’espansione della biodiversità: in molti casi, la completa scomparsa dell’uomo può addirittura avere effetti negativi sugli ecosistemi. La complessità di questi processi mostra che la relazione tra l’uomo e la natura non è semplicemente antagonistica. Anziché essere sempre distruttiva, la presenza umana può favorire la biodiversità attraverso attività di gestione sostenibile del territorio, come il pascolo, la coltivazione diversificata e il mantenimento dei paesaggi a mosaico. Questo aspetto è stato evidenziato anche da studi condotti in Europa, dove i tradizionali prati da fieno coltivati per l’alimentazione degli animali si sono rivelati più efficaci nel preservare la biodiversità rispetto alle aree protette create artificialmente.
Di conseguenza, il ritorno della natura nei luoghi abbandonati non è un processo uniforme e predeterminato. Se da un lato alcune foreste possono rigenerarsi spontaneamente, dall’altro molte aree abbandonate rimangono vulnerabili a fenomeni di degrado ambientale, incendi incontrollati e diffusione di specie invasive. Per garantire un futuro sostenibile, non basta affidarsi alla semplice negligenza: è necessaria una gestione attiva e consapevole del territorio, che sappia bilanciare la presenza umana con la tutela degli ecosistemi.
In Bulgaria, la Daskalova ha scoperto che le monocolture invasive hanno preso il sopravvento, riducendo la varietà delle specie, mentre in altre realtà, il ritorno della foresta ha chiuso gli spazi aperti fondamentali per molte specie di uccelli e insetti impollinatori. Un tempo, la megafauna modellava molti di questi ambienti. Mammut, bisonti, bufali d’acqua giganti e orsi delle caverne erano abbastanza imponenti da trasformare le foreste, abbattendo alberi e creando vaste praterie e steppe. Secondo le stime degli scienziati, queste grandi creature contribuivano a mantenere circa il 30% delle foreste del Sud America sotto controllo. La loro scomparsa è coincisa con l’avvento dell’uomo, il quale ha continuato l’opera di agente capace di rimodellare il paesaggio su larga scala, aprendo spazi alla luce e permettendo ad altre forme di vita di attecchire.
Per millenni, le popolazioni umane hanno plasmato il territorio con il fuoco e gli strumenti, creando spazi per l’agricoltura, il pascolo e la caccia. In questo modo hanno dato origine a paesaggi “mosaico”, ovvero una combinazione di habitat diversi, tra cui prati, foreste e giardini. Questi ambienti non erano concepiti come riserve naturali, eppure ospitavano una biodiversità sorprendente. Nel suo libro Nature’s Ghosts, Sophie Yeo racconta come alcune ricerche abbiano dimostrato che i prati da fieno europei, coltivati per l’alimentazione del bestiame, si siano rivelati più efficaci nel preservare la varietà delle specie rispetto a quelli destinati espressamente alla biodiversità. La ricerca di Erle Ellis del 2021 ha inoltre dimostrato che, per almeno 12.000 anni (per tutto l’Olocene), l’umanità ha modellato gran parte della superficie terrestre, e che molte delle aree oggi considerate “selvagge” sono in realtà il risultato di un’interazione continua tra uomo e ambiente. Alcuni studi sono andati ancora più indietro nel tempo, fino al tardo Pleistocene, circa 120.000 anni fa, scoprendo che i paesaggi “vergini” non esistono.
Le persone immaginano la natura come un luogo incontaminato da proteggere dall’uomo, ma questa è un’illusione.
Erle Ellis
Molti degli ecosistemi che oggi consideriamo incontaminati, come le savane dell’Africa equatoriale o la foresta pluviale amazzonica, sono in realtà il risultato di una lunga interazione tra uomo e natura. “Il ruolo centrale degli esseri umani nell’ecologia è stato a lungo ignorato” – afferma Ellis – “I luoghi con la maggiore biodiversità sulla Terra coincidono spesso con le aree abitate dalle popolazioni indigene. Perché? Perché non solo conservano la biodiversità, ma la creano, mantenendo un paesaggio eterogeneo“.
È innegabile che l’attività umana moderna, con la deforestazione su larga scala e il consumo intensivo di combustibili fossili, abbia avuto effetti devastanti sugli ecosistemi. Tuttavia, se l’obiettivo è ripristinare l’equilibrio naturale, la questione non è tanto escludere l’uomo, quanto piuttosto ridefinire il suo ruolo all’interno dell’ambiente.
L’idea che l’assenza dell’uomo porti automaticamente a un paradiso ecologico è quindi un mito. La realtà è più complessa: alcune forme di presenza umana possono essere benefiche per la biodiversità, mentre l’abbandono incontrollato può portare a ecosistemi degradati e meno resilienti. Affinché la natura possa veramente prosperare, non basta lasciare tutto al caso: servono strategie di gestione ecologica che bilancino il recupero naturale con interventi mirati. La sfida del futuro non sarà semplicemente decidere se abbandonare o meno un territorio, ma come guidare la sua trasformazione in modo sostenibile, garantendo che il grande abbandono non diventi un’occasione perduta per la biodiversità globale.