La scorsa settimana, il Famine Review Committee, una commissione di esperti del World Food Programme delle Nazioni Unite, ha lanciato l’allarme: alcune parti della Striscia di Gaza sono a rischio di carestia imminente. Un avvertimento che non è giunto inatteso. Da oltre un anno, l’accesso agli aiuti umanitari nel territorio è stato limitato dalle condizioni belliche e dalle restrizioni israeliane. Quest’estate, lievi progressi avevano permesso un aumento delle forniture di cibo e medicine, ma, ad agosto, quei timidi passi avanti sono stati bruscamente interrotti; Israele ha nuovamente ostacolato le operazioni di consegna degli aiuti essenziali.
Le organizzazioni umanitarie e le Nazioni Unite hanno sottolineato che la crisi è particolarmente grave nel nord di Gaza, ma nonostante gli avvertimenti e gli appelli della comunità internazionale, l’attività di aiuto è rimasta limitata e tardiva. L’amministrazione Biden, pur continuando a fornire armi a Israele nonostante la guerra abbia causato più di quarantatremila morti, ha recentemente affermato che le future spedizioni di armamenti potrebbero essere ridotte se non verrà garantito un migliore accesso agli aiuti umanitari. A metà ottobre, una lettera firmata dal Segretario di Stato Antony Blinken e dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin aveva dato a Israele trenta giorni per migliorare il flusso di aiuti. Ma martedì scorso, l’ultimatum è scaduto senza alcuna conseguenza concreta, con l’amministrazione Biden che ha deciso di non dare seguito alla minaccia di interrompere il supporto militare.
A peggiorare ulteriormente la situazione l’approvazione da parte del governo israeliano di nuove leggi che vietano all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (UNRWA) di operare in Israele a partire da gennaio. L’UNRWA, che prima del 7 ottobre impiegava tredicimila persone, in gran parte palestinesi, a Gaza, è stata accusata dal governo israeliano di essere “un’organizzazione terroristica” infiltrata da membri di Hamas, ma le prove a sostegno di queste affermazioni sono state scarse. Secondo un portavoce dell’ONU, nove dipendenti potrebbero aver partecipato agli attacchi del 7 ottobre, ma questa eventuale complicità non giustifica la chiusura di un’agenzia che rappresenta una delle poche ancore di salvezza per la popolazione di Gaza.
Nel frattempo, la carenza di cibo ha raggiunto livelli critici. Ottobre ha visto il numero più basso di camion di aiuti entrati nella Striscia dall’inizio del conflitto: appena 37 al giorno per una popolazione di 2,2 milioni di persone. Questo significa che gran parte degli abitanti non riesce a soddisfare nemmeno i bisogni alimentari di base. “Ci sono stati momenti in cui abbiamo visto bambini così malnutriti che non ce l’hanno fatta“, ha raccontato al New Yorker Louise Wateridge, un’ufficiale senior dell’UNRWA che è stata di stanza a Gaza negli ultimi sei mesi.
Le immagini di famiglie che rincorrono camion di farina o si accalcano per ottenere razioni di cibo sono tornate a essere una triste normalità. “La disperazione è palpabile“, ha raccontato la Wateridge, aggiungendo che la distribuzione degli aiuti è ciclica e mai sufficiente: arrivano solo quando la situazione raggiunge livelli catastrofici, ma non permettono mai una vera ripresa.
Con l’inverno alle porte, poi, nuove minacce si aggiungono a una situazione già drammatica. Nella Striscia di Gaza, oltre un milione di persone vive in rifugi di fortuna, spesso sotto lenzuola, coperte o altri materiali improvvisati che offrono ben poca protezione dal freddo e dalla pioggia. Attualmente, circa 500.000 persone si trovano in aree a rischio di inondazioni, una condizione che potrebbe peggiorare ulteriormente con il cambiamento delle condizioni climatiche. E a rendere tutto ancora più complicato sono gli ordini di evacuazione che, insieme ai bombardamenti, creano un ciclo infinito di sfollamenti. Proprio quando le persone riescono a sistemarsi, anche se non si può parlare di conforto, devono spostarsi di nuovo. L’esaurimento fisico ed emotivo è palpabile: le auto, spesso distrutte o rimaste senza carburante, non sono più un’opzione e gli abitanti ora si muovono solo a piedi portando con sé quel poco che possono.
Ogni giorno è una battaglia per la sopravvivenza. Mentre il mondo guarda, spesso impotente o indifferente, la popolazione continua a lottare contro fame, freddo e bombardamenti. La mancanza di una strategia chiara da parte delle autorità israeliane e delle principali organizzazioni internazionali è forse l’aspetto più preoccupante. Non sappiamo cosa accadrà domani, la prossima settimana o il prossimo mese. E questo dovrebbe scuotere le coscienze di tutti.