Nel luglio scorso, la società israeliana è stata scossa dalla notizia dell’arresto di dieci soldati accusati di abusi sessuali nei confronti di un prigioniero palestinese detenuto nel centro di Sde Teiman, nel sud di Israele. Secondo quanto riportato dai principali media internazionali, i soldati avrebbero violentato il prigioniero mentre era detenuto. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno smentito con forza queste accuse, affermando che nessuna violazione di questo tipo è avvenuta, mentre i soldati coinvolti hanno negato ogni responsabilità. La vicenda ha comunque acceso i riflettori su una serie di questioni legate al comportamento delle IDF nei confronti dei detenuti palestinesi e alle dinamiche interne all’esercito israeliano.
In un’intervista esclusiva per The New Yorker, Isaac Chotiner ha parlato con Yehuda Shaul, ex soldato delle IDF e co-fondatore di Breaking the Silence e Ofek: The Israeli Center for Public Affairs. Shaul è una delle voci più autorevoli nel denunciare gli abusi commessi dai soldati israeliani nei territori occupati e nelle carceri, e il suo lavoro lo ha posto al centro di numerose controversie. Durante l’intervista, Shaul ha offerto una visione critica e dettagliata del cambiamento culturale che sta attraversando l’esercito israeliano, sempre più influenzato da ideologie ultranazionaliste e da una crescente presenza di soldati religiosi nelle sue fila.
Shaul sottolinea che la violenza e l’illegalità all’interno dell’esercito e degli insediamenti in Cisgiordania non sono una novità.
Abbiamo assistito per anni a una crescente violenza da parte dei coloni in Cisgiordania, senza che vi fosse una reale applicazione della legge. I soldati non sono lì per far rispettare la legge ai coloni, ma per proteggerli.
Questo comportamento si è ormai radicato in una simbiosi pericolosa tra le forze armate e i coloni, rendendo indistinguibili i confini tra civili e militari.
Nel corso degli ultimi anni, la situazione si è ulteriormente aggravata. Shaul ricorda episodi in cui i soldati non solo rimanevano inerti di fronte agli attacchi contro i palestinesi, ma in alcuni casi si univano agli aggressori. “Molti dei soldati provengono dagli stessi insediamenti che dovrebbero proteggere. Questa commistione di ruoli ha portato a un deterioramento della disciplina all’interno delle IDF“, ha aggiunto.
Un cambiamento significativo, secondo Shaul, è avvenuto con l’aumento della presenza di elementi nazionalisti religiosi e ultra-ortodossi nelle file dell’esercito. Negli anni Novanta, solo il 2,5% dei cadetti ufficiali era identificabile come religioso-nazionalista; oggi, questa percentuale è salita al 40%. “Questi soldati sono spesso mossi da ideologie radicali e molti di loro vedono il loro servizio militare non solo come un dovere, ma come una missione ideologica”, ha osservato.
Uno degli episodi più emblematici di questa trasformazione, racconta Shaul, è il caso di Elor Azaria, un medico militare che nel 2016 giustiziò un palestinese ferito e disarmato a Hebron. Nonostante l’episodio fosse stato ripreso in video, la condanna di Azaria a soli 18 mesi di carcere suscitò indignazione più per l’incriminazione stessa che per l’atto commesso. Persino il Primo Ministro Benjamin Netanyahu si espresse a favore di Azaria, mettendo in discussione la linea ufficiale delle IDF che puntava a mantenere una certa etica militare.
Il caso Azaria ha segnato un punto di svolta, rivelando una spaccatura all’interno dell’esercito e della società israeliana: da una parte la vecchia guardia militare, che cerca di mantenere un’immagine di professionalità e adesione al diritto internazionale; dall’altra, una base politica e militare più radicale che vuole riscrivere le regole.
Nella conversazione tra Isaac Chotiner e Yehuda Shaul, emerge un punto interessante sul ruolo complesso e ambiguo di Benjamin Netanyahu nella crisi in corso tra Israele e Gaza. Da un lato, il Primo Ministro israeliano ha una lunga storia di politiche repressive contro Gaza, oltre a tentativi di alterare il sistema giudiziario in modo antidemocratico. Tuttavia, quando appare sulla scena internazionale, Netanyahu sembra assumere un tono molto più moderato rispetto a figure di estrema destra come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir.
“La sua politica non è la stessa di Smotrich o Ben-Gvir“, ha affermato Shaul, indicando come Smotrich rappresenti una fazione religiosa nazionale molto più ideologica, con obiettivi precisi su dove l’esercito dovrebbe posizionarsi e su quali valori dovrebbe basarsi. Ben-Gvir, d’altra parte, è considerato più rappresentativo della base della classe operaia della destra israeliana.
Netanyahu, spiega Shaul, non è semplicemente legato alle loro posizioni. La sua forza deriva da una frustrazione più ampia nella società israeliana riguardo ai risultati della guerra in corso. Dopo i massacri del 7 ottobre, era stata promessa una risposta decisiva contro Hamas, con il ritorno degli ostaggi e la distruzione della leadership di Hamas a Gaza. Tuttavia, a mesi dall’inizio del conflitto, questi obiettivi non sono stati raggiunti.
Shaul evidenzia una frattura politica nel Paese: mentre i cittadini di centro-sinistra incolpano Netanyahu per non aver esplorato alternative alla forza militare, quelli di destra accusano i generali e l’esercito di non essere abbastanza determinati. L’estrema destra, in particolare, è sempre più incline a dare la colpa ai leader militari, affermando che le loro preoccupazioni per le relazioni internazionali e le indagini della Corte Penale Internazionale (CPI) stanno trattenendo l’esercito israeliano.
Netanyahu si trova così al centro di questo conflitto politico, cercando di bilanciare la pressione esercitata dall’estrema destra con il desiderio di mantenere una certa rispettabilità sulla scena mondiale. Shaul conclude affermando che, nonostante i massicci sforzi militari, la realtà è che “abbiamo quasi cancellato Gaza dalla faccia della Terra, e Hamas non è scomparso“, il che ha alimentato ulteriormente la necessità di trovare capri espiatori per il fallimento, che spesso vengono individuati all’interno della leadership militare.
Mentre la società israeliana affronta una crescente polarizzazione, la domanda su cosa succederà all’esercito e allo Stato di diritto rimane aperta. “L’Israele di oggi deve decidere se vuole essere uno Stato che sostiene un progetto coloniale in Cisgiordania, o se è un progetto coloniale che sostiene uno Stato”, ha concluso Shaul.
La crisi all’interno delle IDF sembra quindi riflettere una crisi più ampia all’interno della società israeliana, dove le istituzioni dello Stato sono messe alla prova da forze interne sempre più difficili da controllare.