La COP29, che si tiene quest’anno a Baku, si apre in uno scenario carico di tensioni e sfide irrisolte. A soli sei anni dalla scadenza fissata per il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, il mondo è sulla buona strada non verso una riduzione, bensì verso un aumento delle emissioni. I nuovi dati, provenienti dal Global Carbon Budget, testimoniano infatti un incremento dello 0,8% delle emissioni di carbonio, contrastando nettamente con la riduzione prevista del 43%. E per la prima volta, quest’anno il riscaldamento globale ha raggiunto più di 1,5°C rispetto alla media preindustriale, come evidenziato dall’agenzia europea per il clima, Copernicus.
Ci troviamo di fronte a un dilemma di portata storica: da un lato, la conferenza rappresenta un’occasione per mobilitare i trilioni di dollari necessari a sostenere i Paesi in via di sviluppo e affrontare la crisi climatica; dall’altro, si assiste a un quadro politico internazionale dominato da nazioni e leader che, con approcci diversi, faticano o si rifiutano di adottare misure decisive. Lo stesso Azerbaijan, ospite di questa edizione della COP, è un importante produttore di petrolio e gas, il che getta una luce ironica, se non paradossale, sulla conferenza.
Le parole di Sultan Al Jaber, presidente della COP28, risuonano come un ammonimento: “La storia ci giudicherà dalle nostre azioni, non dalle nostre parole.” Ed è proprio l’azione concreta che sembra mancare. La dipendenza dal carbone in Cina, il ritorno della produzione di gas negli Stati Uniti, la crescita esponenziale dell’uso di carbone in India evidenziano un quadro allarmante.
Il ritorno poi degli Stati Uniti a una leadership negazionista, con la recente vittoria elettorale di Donald Trump, costituisce un ulteriore ostacolo alla transizione energetica. Durante il suo primo mandato, Trump aveva ritirato gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, e vi sono ora fondati timori che possa farlo di nuovo, compromettendo l’efficacia degli impegni internazionali. Michael E. Mann, climatologo dell’Università della Pennsylvania, ha descritto gli USA come un “nascente Petrostato”, e l’analisi prevede che la nuova amministrazione potrebbe generare ulteriori miliardi di tonnellate di CO₂ entro il 2030, il che annullerebbe totalmente gli effetti positivi delle tecnologie pulite implementate in tutto il mondo negli ultimi anni.
L’aggravarsi delle crisi climatiche, che in questo 2024 ha portato con sé ondate di calore senza precedenti, inondazioni devastanti e incendi boschivi estesi, sembra tuttavia non bastare per stimolare un’azione coordinata e significativa. Al contrario, la COP29 rischia di passare alla storia come l’ennesima occasione mancata per fronteggiare un’emergenza climatica ormai incombente. Nonostante gli sforzi delle nazioni più vulnerabili, che spingono per un maggiore supporto economico, i Paesi più ricchi esitano a investire le risorse necessarie per colmare il divario finanziario, anche a causa di priorità economiche interne e tensioni geopolitiche.
Al centro della COP29, soprannominata ironicamente “COP della finanza”, c’è infatti la discussione su come garantire ai Paesi in via di sviluppo le risorse per affrontare i disastri climatici e costruire infrastrutture sostenibili. È stato stimato che queste nazioni avranno bisogno di almeno 230 miliardi di dollari all’anno per adattarsi ai disastri climatici, ma raccogliere tali fondi rimane una sfida ardua, specialmente con la crescente incertezza politica. Il punto è legato al New Collective Quantitative Goal (NCQG), la quota di risorse finanziarie che i Paesi ricchi dovranno mettere a disposizione per aiutare il Sud del mondo a fronteggiare la crisi climatica e a svilupparsi in modo sostenibile. Africa, Caraibi, isole del Pacifico chiedono tutti un finanziamento vicino ai mille miliardi di dollari. Ma la questione non è solo quantitativa; si parla anche di qualità: come saranno distribuiti questi fondi, a quali condizioni e con quale livello di accessibilità. Le richieste variano enormemente: il Pakistan chiede che il 70% delle donazioni sia a fondo perduto; il gruppo AOSIS (le isole in pericolo) auspica un fondo dedicato alla loro sopravvivenza; e l’Africa richiede 1.300 miliardi di dollari l’anno. L’Europa e il Giappone, intanto, spingono per ampliare il numero dei donatori, suggerendo che anche economie emergenti come Cina e Stati del Golfo debbano contribuire attivamente.
Altro tema particolarmente sensibile è quello della deforestazione, aumentata a causa degli effetti di El Niño, che ha inasprito le siccità e innescato incendi boschivi nelle foreste dell’Amazzonia e del Sud-Est asiatico. Gran parte delle emissioni derivanti dalla deforestazione proviene da Brasile, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo, Paesi in cui l’industria agricola, come quella della soia sudamericana destinata alla Cina e all’Europa, ha portato alla distruzione di centinaia di kilometri quadrati di foreste e boschi.
E nonostante gli impegni e i protocolli di adattamento, la realtà mostra un quadro politicamente frammentato che rende tutti gli sforzi vani e inadeguati. Il richiamo del recente rapporto dell’UNEP, intitolato provocatoriamente “Basta con le chiacchiere… per favore!“, non solo evidenzia l’insufficienza degli impegni presi finora, ma sottolinea la necessità di un’azione immediata e decisa se si vuole evitare il superamento del punto di non ritorno climatico.
Senza una svolta concreta, questa conferenza rischia di trasformarsi in una mera formalità, una ripetizione ciclica di promesse e impegni non mantenuti. I leader mondiali sono chiamati a rispondere non solo a una crisi ambientale, ma anche a una crisi etica: se la storia ci giudicherà dalle nostre azioni, come ha ricordato Al Jaber, allora l’inerzia e l’indifferenza di fronte alla crisi climatica saranno la nostra eredità più triste.