“Fare sport è una buona cosa per la gente comune; lo sport praticato a livello professionistico, al contrario, non fa bene alla salute“, osserva Rafael Nadal nelle prime pagine della sua autobiografia, Rafa, scritta insieme al giornalista britannico John Carlin. “Spinge il tuo corpo verso limiti che gli esseri umani non sono naturalmente attrezzati per gestire“. Il libro è stato pubblicato nel 2011 e Nadal, con l’instancabile fisicità del suo tennis, aveva già da tempo messo alla prova quei limiti. Aveva una tendinite ad entrambe le ginocchia, oltre alla sindrome di Mueller-Weiss, una malattia degenerativa e cronicamente dolorosa delle ossa. Queste sono condizioni comunemente associate all’invecchiamento. Ma Nadal, quando scrisse la sua autobiografia, non aveva ancora compiuto venticinque anni.
Nuovi infortuni venivano continuamente aggiunti a quella che alla fine è stata una lunga lista; così come l’elenco delle sue vittorie: 20 Slam (13 Roland Garros, 4 US Open, 2 Wimbledon, 1 Australian Open), 1 oro ai Giochi Olimpici, 35 Masters 1000, 86 tornei Atp e 209 settimane numero 1 del mondo. Nadal, che compirà trentotto anni a breve, è di nuovo a Parigi per competere in quello che probabilmente sarà il suo ultimo Open di Francia, e forse il suo ultimo torneo. Per i suoi fan si tratta dell’ultima e più sentita tappa di quello che finora è stato una sorta di tour d’addio.
È stato nel 2005, al suo debutto al Roland Garros, che si è imposto all’attenzione del mondo, vincendo il campionato a diciannove anni con una maglietta senza maniche che richiamava l’attenzione sui suoi bicipiti erculei. Si è sempre sentito a casa giocando sulla terra rossa del Philippe-Chatrier, con il suo strato superiore di mattoni polverizzati che crea rimbalzi alti e con ampio spazio dietro le linee di fondo che gli consente di posizionarsi lontano per ricevere il servizio, avendo così il tempo di colpire con precisione e potenza la palla in arrivo. A Parigi, Nadal è stato in grado di esprimere pienamente la sua etica di gioco: Juega cada punto como si fuera el último. La sua insistenza nel giocare ogni punto come se fosse l’ultimo, usando la sua velocità e forza per colpire ogni palla, non può essere separata dai suoi numerosi infortuni e dalla sofferenza che ha sopportato per giocare. La sofferenza, a sua volta, non può essere separata dall’ardore dei suoi fan.
Ma la grandezza di Nadal non è semplicemente il risultato del suo implacabile atletismo e della sua quasi incrollabile volontà competitiva. È stata costruita su fondamenta allo stesso tempo tecniche e tattiche. Il suo schema di gioco non era innovativo né sorprendente, eppure i suoi avversari non potevano farci nulla: pur conoscendo le sue mosse, non riuscivano a batterlo. Il vantaggio tecnico di Nadal era un dritto mancino che mandava incrociato al rovescio del suo avversario destro, con un topspin che non aveva eguali nei suoi anni migliori. Secondo le prove video di un ricercatore, la palla ruotava ottanta volte al secondo, con un effetto simile a quello di un disco da hockey. “Quello era il momento in cui capivi che era in fiducia“, ha detto recentemente Andy Roddick, “ed è allora che capivi che eri fregato“. Roddick, numero 1 al mondo nel ranking ATP dal 3 novembre 2003 al 1º febbraio 2004, che ha solo quattro anni più di Nadal ma si è ritirato più di dieci anni fa, sa meglio di chiunque altro che Nadal era molto più di uno specialista della terra battuta, avendolo incontrato per lo più sul cemento e uscendo quasi sempre sconfitto. Nadal ha vinto sei major sul cemento, nonostante non abbia mai vantato un servizio che potesse fargli guadagnare punti.. Nadal ha vinto sei major sul cemento, nonostante non abbia mai vantato un servizio che potesse fargli guadagnare punti. L’erba ha privato Nadal del suo alto rimbalzo, eppure è riuscito a vincere a Wimbledon contro Roger Federer nella finale del 2008, considerata da molti come la più grande finale di Wimbledon di tutti i tempi. Nelle fasi successive della sua carriera, sono arrivati giocatori più giovani e lui ha accettato la sfida. Nel 2022, a Indian Wells, in un pomeriggio ventoso, Nadal riuscì a battere un fenomeno che aveva quasi la metà dei suoi anni, il diciottenne Carlos Alcaraz, in un’estenuante semifinale, giocando gran parte, come avremmo appreso in seguito, con una frattura da stress ad una costola.
Le statistiche mostrano che Djokovic è stato il più grande tennista della sua epoca, e probabilmente di tutti i tempi: ha vinto il maggior numero di campionati del Grande Slam, è stato per il maggior numero di settimane il numero 1 nel ranking mondiale e ha avuto il maggior numero di vittorie negli scontri diretti con Nadal e Federer. Ma che dire delle cose, profonde e sfuggenti, che i dati non possono catturare? Nadal è qualcosa di più di un grande battuto, alla fine, dai più grandi. Ha portato in gioco un temperamento distinto, una competitività veemente senza traccia di rabbia o rancore; una stoica e “premurosa” ferocia. Si è spinto oltre, imponendo sforzi punitivi al suo corpo tormentato dagli infortuni, perché credeva che fosse ciò che lo sport richiede e ciò che un campione è chiamato a fare. Abbiamo vissuto il suo gioco, le sue lotte, la sua grandezza. Il suo fervore lo legava al tennis, così come legava noi a lui. Quando Nadal aveva solo ventidue anni, un giornalista del Times gli chiese quale impatto lo sport sembrava avere sul suo corpo. “Tre anni fa dicevano che non potevo durare“, ha detto. “Sono stanco che la gente mi dica che non posso continuare a giocare così“.