Chissà cosa deve aver pensato qualche settimana fa Roger Federer quando è stato reso noto il titolo dell’ultimo libro in uscita di uno scrittore eccentrico come Geoff Dyer: The Last Days of Roger Federer. Edito per ora solo in Inghilterra, il nuovo “saggio” dello scrittore inglese provoca e fa sorridere insieme. Dyer, infatti, racconta il lento crepuscolo di uno dei tennisti più forti di sempre. Nel libro vengono anche analizzati i percorsi discendenti di altri grandi artisti e pensatori come Dylan, Beethoven e Nietzsche. La parabola analizzata da Dyer, con grande autoironia come abbiamo imparato leggendo i suoi precedenti lavori, è quella di quando l’età avanza e i risultati iniziano a essere meno entusiasmanti, più difficili da raggiungere. Possiamo solo immaginare come abbia reagito Federer, uno che ha sempre vissuto con discrezione la propria notorietà mondiale, ad una sovraesposizione letteraria così mirata. Anche se immaginiamo che alla fine abbia prevalso l’autoironia. In realtà Dyer ha avuto un predecessore italiano, l’anno scorso infatti la casa editrice 66thand2nd ha pubblicato un libro curioso e divertente, ma estremamente accurato nei dettagli, dal titolo Roger Federer è esistito davvero, a cura di Emanuele Atturo. Anche in questo caso l’autore dopo aver analizzato alla perfezione buona parte della carriera del tennista svizzero, dedica ampio spazio al declino lento di uno sportivo eccezionale.
Come mai la carriera e la fine carriera di Roger Federer attrae così tante attenzioni? La domanda si fa stringente perché oramai tutti conosco le affermazioni rilasciate dallo stesso Roger Federer al quotidiano olandese Algemeen Dablad poco più di una settimana fa.
Dopo aver saltato Wimbledon, il campo che di certo lo ha più esaltato, i media si sono accaniti sul suo possibile ritorno in campo, anche alla luce dell’infortunio al ginocchio mai nascosto dallo stesso Federer. Il fuoriclasse svizzero non ha escluso la volontà di un ritorno il 23 al 25 settembre per la Lavor Cup, e poi al torneo di Basilea, tra il 24 e il 30 ottobre.
Tornerò sicuramente. Sono curioso di capire cosa accadrà, ma sono fiducioso. I prossimi tre o quattro mesi saranno fondamentali per definire il mio futuro. Spero di tornare in campo, ma se non sarò più competitivo abbandonerò, non credo di avere bisogno del tennis. Ci sono altre cose che mi rendono felice.
Già, ma se il tennis non dovesse più servire a Federer, ormai quarantaduenne, al tennis invece servirà Federer? Questa è la domanda che accipiglia amatori, cronisti, professionisti del rettangolo da gioco.
Per rispondere a questo quesito dobbiamo ricostruire i motivi per cui Roger Federer è diventato Roger Federer. Innanzitutto il dato anagrafico. Per un tennista di dieci-quindici anni fa sarebbe stato impensabile anche soltanto immaginare un ritorno dopo i quarant’anni, ora stiamo parlando di tornare in campo a quarantadue anni per Federer. È ovvio che questa longevità sportiva sia dovuta alla crescita tecnologica e scientifica nel campo dello sport (vedi in generale anche i calciatori). Ma se da un lato questa possibilità ha allungato il mito del giocatore svizzero, dall’altro ha reso i suoi ultimi anni un lento declino sotto gli occhi di tutti. Aggiungiamo a questo naturale processo che gli avversari storici di Federer sono stati due tipi davvero difficili da arginare come Nadal (con cui ha dato vita ad alcune tra le più belle partite di sempre) e Djokovic.
Gli ultimi dieci anni hanno visto un continuo superarsi fra questi tre nomi, in continuo oscillare di record e primari, aiutati ovviamente dal progresso tecnico e scientifico appunto. Ma proprio in questo risvolto della faccenda risiede una delle risposte al perché il tennis abbia bisogno di Roger Federer: Roger Federer è il tennis, o almeno una buona parte di esso. Basta analizzare le caratteristiche dei suoi avversari per poter tracciare un profilo ancora più chiaro del tennista svizzero. Nadal e Djokovic rappresentano sicuramente il tennis moderno, per certi versi avanguardista, futurista. Se la forza di Nadal, costruita con un mirato e duro esercizio fisico in sedute estenuanti di palestra, rappresenta l’introduzione della potenza fisica (“Al massimo in palestra” dichiarò Federer “mi sono allenato per tre ore, credo sia il mio record“), per Djokovic parliamo della costruzione di un giocatore nuovo sia mentalmente, sia fisicamente. Nadal e Djokovic con la loro prepotenza, con la loro forza, con la loro scientificità hanno spostato l’asticella del giocare a tennis di qualche metro più avanti. I risultati del resto giustificano questa analisi.
Cosa c’entra con tutto questo Roger Federer? Federer è stato da un lato il padre del tennis moderno, dall’altro il grande custode del tennis classico. Per chi ha seguito la sua carriera meravigliosa ricorderà gli esordi. Comparso giovanissimo sui campi da gioco professionistici, appena diciassettenne, il tennista di Basilea colpiva inizialmente più per la sua classe che per l’aggressività, caratteristica invece che accomuna quasi tutti i campioni contemporanei. Il suo modo classico di tenere la racchetta, la sua eleganza in campo, fecero innamorare migliaia di spettatori in tutto il mondo prima ancora che Federer diventasse un vincente tout court.
Allo stile di Roger Federer ha dedicato parole di puro amore David Foster Wallace in Tennis come esperienza religiosa:
Federer è capace di vedere, o creare, spazi e angolazioni per piazzare i colpi vincenti che gli altri si immagino, e la prospettiva offerta dalla televisione é perfetta per vederli e rivederli.
Parole non certo dette con leggerezza dallo scrittore americano precocemente scomparso che al tennis ha dedicato oltre che il protagonista di Infinite Jest, il libro autobiografico Tennis, tv, trigonometria, tornado, in cui racconta con dovizia tecnica molte delle armi segrete dei grandi tennisti (tra cui include se stesso).
‘Momenti che sono tanto più intensi’ – aggiunge Wallace rispetto alla qualità riconosciute di Federer – ‘se un minimo di esperienza diretta del gioco ti permette di capire l’impossibilità di quello che gli hai appena visto fare’.
Bisognerà aspettare solo qualche anno perché da petit diable, come veniva chiamavano agli inizi per il carattere iracondo, il tennista svizzero si trasformi in The Swiss Maestro, diventando un simbolo per la Svizzera tutta. Nel 2003 sarà evidente a tutti, esperti e non, la qualità di Federer. Sarà il primo svizzero Federer a vincere il torneo di Wimbledon, un annus mirabilis in cui conquisterà anche la Master Cup a spese del leggendario André Agassi, smussando un carattere violento e acquisendo la capacità di controllare qualunque tipo di situazione in campo e fuori.
Che sia un giocatore percepito come diverso dagli altri lo si intuisce anche dalle sponsorizzazioni che accompagnano il tennista svizzero da sempre. Su tutti Rolex, marchio di estremo lusso al di là del tempo, che ha sempre foraggiato e alimentato il mito di Federer come giocatore di una classe a parte, con un contratto che lo ha accompagnato dal 2006 in poi e con un rinnovo di ben 90 milioni di dollari annuali nel 2016. Insomma, Federer un classico se vogliamo.
Da qui parte la costruzione di un mito, che però sbaglieremmo a ricercare solo nei numeri e nelle statiche, che pure sono da capogiro. Se guardiamo, infatti, il suo palmares i record non mancano, anche se in questo momento molti primati sono stati superati proprio dai suoi avversari di sempre. Ma è la lettura delle fasi della carriera ad essere interessante, la progressione. Roger Federer ha dato vita ad alcune delle partite più belle della storia del tennis, partendo sempre dalla propria capacità di giocare in modo classico, pulito, elegante. Una grandezza che non si appanna anche di fronte ad una sconfitta come quella del Wimbledon 2008, anno che molti ritengono l’inizio del declino del tennista. Ricordiamo, come del resto fa bene Emanuele Atturo nel suo libro mentre racconta la mitica ormai sfida di Wimbledon del 2008 con Nadal, che:
Federer era forse il miglior giocatore di tennis, ma di certo non era il miglior lottatore, quello più disposto a soffrire, a dare fondo alle proprie risorse. Vince chi è più pronto ad attraversare il dolore e la fatica materiale di una partita di tennis per farne lo spettacolo della propria resistenza; chi nel microcosmo esistenziale di una partita rimane saldo nelle proprie convinzioni.
Fu quella, la prima vittoria del tennis moderno, muscoloso, su un tennis tecnico, classico, elegante. Dopo una partita di più di quattro ore, il futuro vinse sulla classicità. Una vittoria quasi vissuta in sordina per Nadal e invece riconosciuta da Federer con delle parole di elogio per l’avversario: “Lui non molla mai. Gioca con la stessa intensità dall’inizio alla fine di ogni incontro. Questo fa la differenza rispetto a tutti gli altri“.
Federer, però, non smise di vincere, anzi ricordiamo ancora gli anni dei grandissimi successi che lo videro come numero 1 dell’ATP ancora nel 2009, nel 2012 e nel 2018.
Carriera altalenante certo, anche dovuta all’infortunio al ginocchio del 2016 e ai continui mal di schiena che lo perseguiteranno dal 2013 in poi. Niente di tutto questo offusca però la figura di Roger Federer, complice una personalità semplice, generosa, ma anche assertiva che lo ha visto rimettersi in campo dopo ogni caduta, dopo ogni sconfitta. Spiegando il suo disinteresse per le statistiche, Federer ha sempre detto di trovare una motivazione intrinseca nel gioco, che ovviamente lo ha motivato al di là dei risultati.
‘La mia più forte motivazione è l’amore per il gioco del tennis’ – raccontava Repubblica qualche anno fa – ‘è sempre stato così; puoi sempre trovare un modo per trovare nuove motivazioni.’
La stessa passione che ha motivato negli anni i suoi fan di ogni emisfero e che gli ha permesso di godere con consapevolezza delle tante vittorie.
Di solito quando vinco vado a cena con parenti e amici. Può capitare di essere in venti o trenta persone. Poi mi addormento senza problemi anche dopo il successo in uno Slam. Tutto qui. Ho imparato a godermi le mie vittorie in modo più consapevole.
Quello che amiamo di Federer è la sensazione di essere di fronte ad un uomo che ha nutrito il proprio talento, la propria sapienza, con cura e parsimonia, senza eccessi. Lavorando su se stesso e migliorandosi costantemente. L’affidabilità di una marchio che non ha bisogno di troppe urla per dimostrare il proprio lusso. Sono tante le ragioni per cui se Federer dovesse abbandonare il tennis, al tennis mancherebbe molto uno dei suoi simboli destinati comunque a rimanere nel tempo.
Devi essere forte mentalmente per vincere, che tu sia numero uno o no. Non so cosa pensino i miei tifosi, ma di certo gli addetti ai lavori non sottovalutano la mia tenuta mentale durante i match. Non sarebbe stato facile, altrimenti, restare al top per tanti anni.