C’era una volta un giovane peruviano che sognava di diventare scrittore. Ma nel suo destino, oltre alla letteratura, c’erano una scuola militare, un matrimonio non convenzionale, un pugno a García Márquez e una candidatura presidenziale. Quel giovane si chiamava Mario Vargas Llosa, ed è diventato uno dei più grandi narratori del Novecento. È morto a Lima all’età di 89 anni la scorsa domenica, dopo una vita passata a raccontare – e a giudicare – l’America Latina, i suoi tiranni, le sue ipocrisie e, più di tutto, le sue contraddizioni. Ma anche la sua stessa esistenza, disseminata di svolte brusche, ha finito per somigliare sempre più ai romanzi che scriveva.
John Updike, il più influente critico letterario dell’ultimo quarto del XX secolo, ne scrisse con entusiasmo già a metà degli anni Ottanta, quando lo scrittore non era ancora Premio Nobel, ma era già un gigante. “È il romanziere sudamericano che dovete leggere”, scrisse, mettendolo idealmente al posto di García Márquez nel pantheon delle letture necessarie. E ne elogiava l’intelligenza feroce, la capacità di scrivere romanzi in cui “i personaggi si prendono il raffreddore mentre combattono per la loro vita”. Era il suo modo di dire che Vargas Llosa sapeva raccontare la vita per com’è, non per come dovrebbe essere.
Un romanzo chiamato Perù
Nato ad Arequipa nel 1936, Vargas Llosa crebbe nella convinzione che il padre fosse morto. Scoprì la verità solo a dieci anni, quando fu costretto a vivere con lui. Autoritario e ostile al sogno letterario del figlio, lo spedì all’Accademia Militare Leoncio Prado per “fargli passare la voglia di scrivere“. Ma quell’esperienza divenne il seme del suo primo romanzo, La città e i cani (1963), feroce ritratto del mondo militare e delle sue ipocrisie. Il libro fu talmente scomodo che, racconta l’autore, ” I generali ne fecero un falò di centinaia di copie“.
Fu l’inizio di una carriera incandescente. Con La casa verde (1966) e Conversazione nella cattedrale (1969), Vargas Llosa scolpì un realismo complesso, ispirato a Faulkner, fatto di salti temporali e di più voci narranti. I suoi libri raccontavano un Perù contraddittorio, violento, meraviglioso: un Paese malato di potere, fatalismo e ingiustizia. “Quando fu il momento esatto in cui il Perù si è incasinato?“, si chiedeva uno dei suoi personaggi. Una narrazione densa e politicamente esposta che gli valse il Nobel nel 2010 per aver “tracciato una cartografia delle strutture del potere e immagini incisive della resistenza, della rivolta e della sconfitta“.
Ironia, erotismo e rivoluzione
Non fu solo tragedia. Vargas Llosa era anche capace di una comicità irresistibile. In Pantaleón e le visitatrici (1973), ha raccontato l’assurda missione di un capitano incaricato di gestire un servizio di prostituzione per i soldati dell’Amazzonia. In La Zia Julia e lo scribacchino (1977), ha trasformato in romanzo autobiografico il proprio amore giovanile per la zia acquisita, più grande di dieci anni: “Una dolce follia“, come la definì lui stesso, che scioccò la sua famiglia e fece sorridere migliaia di lettori. E proprio la vita privata – mai nascosta, mai semplice – fu spesso al centro delle cronache. Il matrimonio precoce e non convenzionale, poi il divorzio, quindi le nozze con la cugina Patricia, e infine la lunga relazione con Isabel Preysler, icona della mondanità spagnola. Un’esistenza sentimentale che sembrava in continuo stato di riscrittura, come se ogni stagione richiedesse una trama nuova.
Scrisse anche di sesso con uno stile sobrio ma diretto, a tratti divertente, mai compiaciuto. Nei suoi memoir, Il pesce nell’acqua (1993), ricordava con nostalgia i riti amorosi dell’adolescenza:
Quella fase della mia vita è rimasta impressa non solo come violenta e repressiva, ma anche come fatta di momenti delicati e intensi che mi compensavano di tutto il resto.
L’amico colpito (letteralmente) e la politica come racconto
La vita privata di Vargas Llosa era materia da romanzo essa stessa. Come quando nel 1976, durante la première di un film a Città del Messico, sferrò un pugno al volto del suo ex amico Gabriel García Márquez. Nessuno ne ha mai chiarito il motivo, ma si sospettò che c’entrasse sua moglie. La celebre foto di Gabo con l’occhio nero e un sorriso beffardo è rimasta a testimoniare uno degli aneddoti più discussi della letteratura del Novecento.

L’interesse per la politica lo accompagnò per tutta la vita. Da giovane sostenitore della sinistra, si spostò progressivamente verso posizioni liberali e conservatrici. Negli anni Novanta fece quello che pochi scrittori hanno osato: candidarsi alla presidenza del proprio Paese. Sembrava una figura fuori tempo massimo, vestito da professore di Oxford in mezzo a una nazione provata dalla crisi e dal terrorismo. Parlava di privatizzazioni, di libero mercato, di razionalizzazione dello Stato. Ma il Perù non lo seguì. Vinse Alberto Fujimori, outsider populista e pragmatico, e Vargas Llosa tornò alla narrativa, forse con più lucidità e amarezza di prima.
Dopo quella sconfitta, tornò alla scrittura con ancora più intensità. La festa del caprone (2000), ambientato nella Repubblica Dominicana di Trujillo, è forse il suo ultimo grande capolavoro: un thriller politico e umano che attraverso la figura di Urania Cabral esplora i traumi della dittatura, i nodi della memoria e la complessità dell’identità.
Scrittore del mondo, voce dell’America Latina
Giornalista fin dagli anni Cinquanta, editorialista per El País dagli anni Novanta, Vargas Llosa scrisse di tutto: arte, geopolitica, religione, letteratura, Israele, Claude Monet, populismo, e chi più ne ha più ne metta. Le sue colonne, pubblicate in tutta l’America Latina, erano limpide e severe. E per questo fu spesso divisivo. Le sue posizioni a favore del libero mercato e la sua opposizione ai regimi di sinistra come Venezuela e Cuba gli valsero l’odio di molti. Quando Margaret Thatcher lasciò Downing Street, lui le inviò un mazzo di fiori con un biglietto:
Non ci sono abbastanza parole nel dizionario per ringraziarla per ciò che ha fatto per la causa della libertà.
Eppure, nonostante l’attivismo politico, Vargas Llosa rimase sempre, prima di tutto, un narratore. “I romanzi che mi hanno affascinato di più – dichiarò nel 1990 a The Paris Review – sono quelli che mi hanno raggiunto non tanto con la ragione, ma con l’incantamento, annientando tutte le mie facoltà critiche e lasciandomi lì, con il fiato sospeso”.
L’ultimo del Boom
Con la morte di Vargas Llosa si chiude davvero un’epoca. È stato l’ultimo sopravvissuto del Boom latinoamericano, la generazione che ha cambiato il volto della narrativa mondiale. Mentre García Márquez inventava Macondo, lui costruiva Canudos in La guerra della fine del mondo (1981), frutto di anni di ricerche negli archivi brasiliani. “Ero avvolto da falchi in volo – scrisse – e mi trovavo a distanza ravvicinata dal balcone da cui Abraham Lincoln parlò ai suoi soldati“.
Nessun luogo gli parlava come il Perù, che amava con rabbia e tenerezza. “Herman Melville – ricordò una volta – definiva Lima la città più strana e triste. Perché? La nebbia e la pioggerellina“. E poi scoppiò a ridere: “Non sono così sicuro che la nebbia e la pioggerellina siano i grandi problemi di Lima“.
Nel 2023 fu accolto all’Académie Française: il primo autore a farne parte senza aver mai scritto un libro in francese. Un onore raro, come rara è stata la sua carriera. In oltre 50 opere, ha raccontato un continente, un secolo, una vita. Con passione, con libertà, con un’ironia tagliente come una spada. E con la convinzione incrollabile che la letteratura, se scritta bene, può spiegare il mondo meglio della realtà.