Usain Bolt
Foto: Bob Martin

Perché crediamo che gli atleti di colore siano i più veloci?

Usain Bolt, uno degli atleti più influenti e iconici della storia, parlando delle sue radici giamaicane, ha spesso attribuito il suo successo a un dono divino e a una dieta locale, ma ha anche avanzato un’ipotesi interessante:

Penso che ciò che abbia reso la Giamaica diversa sia stata proprio la schiavitù. I geni sono davvero forti.

Un’ipotesi controversa, ma non certo nuova. Da decenni si discute, infatti, se la tratta degli schiavi possa aver avuto un impatto duraturo sulle abilità fisiche delle persone di origine africana. Nel 1995, Sir Roger Bannister, noto per esser stato il primo uomo a correre il miglio sotto i quattro minuti, affermò che “gli atleti neri sembrano avere vantaggi anatomici naturali“.

Persiste da secoli un pensiero basato sulla tipologia razziale e sulla convinzione che esistano differenze significative in base al colore della pelle. L’idea che ci sia una concentrazione di un certo gruppo di persone in una certa disciplina, in qualche modo fa supporre alle persone che ci sia una causalità. Da qui l’estrapolazione sconcertante che alcuni hanno fatto: la schiavitù ha trasformato velocisti di origine africana in campioni del mondo.

Si stima che tra il XVI e il XIX secolo circa 10 milioni di schiavi siano stati trasportati via nave dall’Africa attraverso l’Atlantico; le condizioni a bordo erano spaventose e molti di loro non arrivarono mai a destinazione (circa il 10% moriva in ogni viaggio). A tutto ciò si aggiungeva un rigoroso processo di selezione fisica prima dell’imbarco e un allevamento selettivo da parte degli schiavisti una volta arrivati dall’altra parte dell’oceano. Questo ha portato all’emergere della tesi secondo cui il risultato sia stato la creazione negli Stati Uniti e nei Caraibi di una popolazione di discendenti dell’Africa occidentale predisposta agli sforzi atletici.

Paul Campbell, professore associato di sociologia presso l’Università di Leicester, ha messo in guardia dal fare assunzioni del genere: Da secoli, si tende a ridurre la complessità delle differenze umane in base alla razza. Ma la realtà è che si tratta di un costrutto sociale, non biologico“. Per Campbell, categorizzare persone di diverse etnie sotto un’unica etichetta e trarre conclusioni su base genetica è fuorviante, oltreché pericoloso.

Usain Bolt
Foto: Bob Martin

Yannis Pitsiladis, esperto di genetica e sport, ha raccolto migliaia di campioni di DNA da atleti internazionali per verificare la teoria secondo cui il successo nello sport sarebbe radicato nel DNA. Dopo anni di ricerche, è giunto a una conclusione diversa: Sono i geni dei tuoi genitori a determinare le tue capacità atletiche, non il colore della pelle”.

Nel 2003, un gruppo di scienziati australiani ha scoperto il gene ACTN3, associato alla velocità e alla potenza muscolare. Le persone con una variante specifica di questo gene, nota come variante R, sembrano avere una predisposizione maggiore per le discipline atletiche. Ulteriori ricerche, poi, hanno rivelato che questa variante è diffusa tra varie popolazioni, indipendentemente dall’etnia.

David Epstein, autore del libro The Sports Gene, ha sottolineato la limitatezza di tale scoperta: Questo gene può solo dirci chi non arriverà alle finali dei 100 metriscrive. E in effetti, nonostante la variante R sia più comune tra le persone di origine africana, essa non è esclusiva degli sprinter neri né garantisce un successo sportivo.

La sociologia suggerisce che il contesto culturale e sociale giochi un ruolo fondamentale nel dirigere gli atleti verso particolari discipline. Secondo Campbell, “la corsa rappresenta una sorta di rifugio culturale, un ambito in cui le persone nere si sentono accolte e valorizzate“. Gli stereotipi razziali alimentano una profezia autoavverante: se gli atleti credono di avere un talento innato per la corsa, saranno più inclini a investire risorse e impegno in questo ambito.

L’idea che vi sia una ‘razza’ più predisposta di un’altra non ha solide basi scientifiche.

Yannis Pitsiladis

Campbell suggerisce che il predominio degli atleti neri nella corsa sia anche un riflesso delle disuguaglianze sociali. “Nei Paesi occidentali, i neri sono spesso associati alla classe operaia e hanno minori opportunità in molti ambiti professionali“. Questo contesto sociale può incentivare i giovani a investire tutto nelle discipline sportive, percepite come mezzi per ottenere riconoscimento e successo.

Nonostante il contesto socio-culturale e l’elevata dedizione richiesta, i miti razziali persistono. Richard Kilty, campione britannico dei 60 metri, ha raccontato come il colore della sua pelle gli abbia causato diversi pregiudizi. Molte persone mi dicevano che i bianchi erano svantaggiati” – ricorda – “Ma non ho mai permesso a questi commenti di influenzare la mia carriera“.

Il peso degli stereotipi razziali non si limita all’atletica, ma influisce su tutta la società. Durante una lezione a Hong Kong, Pitsiladis chiese ai suoi studenti quanti di loro credessero che la genetica razziale fosse determinante per il successo nello sport. Tre quarti degli studenti alzarono la mano“, ha raccontato. E ciò riflette come l’idea di una superiorità genetica degli atleti neri sia radicata nell’immaginario collettivo, portando alcuni a credere di avere perso la gara già in partenza.

Usain Bolt ha senza dubbio contribuito a riaccendere il dibattito sulle capacità fisiche degli atleti neri, ma come dimostrato, il successo nella corsa dipende da un insieme complesso di fattori culturali, genetici e ambientali. Secondo Campbell, “sarebbe più appropriato chiedersi perché così pochi neri siano presenti in altri sport, come lo sci o il golf“.

Pitsiladis sottolinea infine che il talento, pur essendo influenzato dai geni, richiede un ambiente di supporto e condizioni sociali favorevoli per fiorire“. Il successo di Bolt e di molti altri sprinter dunque non può essere spiegato solo dal patrimonio genetico, ma è frutto di una cultura, una dedizione e un ambiente che li hanno sostenuti lungo il loro percorso.

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