Non è facile rinvenire, nel panorama del secolo scorso, un atleta che ha cambiato il proprio sport come ha fatto il leggendario Johnny Unitas, quarterback senza pari degli allora Baltimore Colts. L’influenza che Johnny U ha avuto sul Gridiorn Football non è stata solo tecnica (il ruolo di quarterback non sarà più lo stesso dopo le imprese del nativo di Pittsburgh), ma anche sociale e culturale: il football professionale della NFL si è elevato dal suo status di poco interessante sfogo domenicale, magari utile per riempire le lunghe settimane senza il baseball, fino a divenire irrinunciabile appuntamento stagionale per milioni di appassionati, soprattutto, grazie alle imprese del numero 19 dei Colts. Infatti, sembra quasi incredibile ricordare come, fino alla fine degli anni Cinquanta, non solo il baseball, ma anche la versione universitaria del football fosse di gran lunga più popolare di quella professionale.
Tutto quanto cambiò grazie alle imprese di Unitas, un “regista” di una specie completamente nuova capace di innalzare il football a vette impensabili e di regalare spettacolo ed eccitazione al pubblico pagante. Lo spartiacque che rappresenta un “prima” ed un “dopo”, ben più del primo Superbowl (tenutosi nel gennaio 1967 tra Green Bay Packers e Kansas City Chiefs – finale che potrebbe riproporsi nel febbraio prossimo), fu il Championship Game, ovvero la finale di campionato tra i campioni dell’Ovest e quelli dell’Est, che vide nel dicembre 1958 i Baltimore Colts opposti ai New York Giants.
Quella che viene ancora definita come “la più grande partita mai giocata” nel vecchio Yankee Stadium, ridotto ad una sorta di pantano dopo che sette giorni prima aveva già ospitato lo spareggio per il “trono” della Eastern Conference tra Cleveland Browns e Giants, consacrò Johnny Unitas quale eroe nazionale, capace di riportare la propria squadra in parità quando mancavano solo 90 secondi al fischio finale. I Colts, sotto di tre punti, vennero letteralmente presi per mano dal proprio quarterback, il quale orchestrò un drive leggendario da 85 yard, utile per il field goal del pareggio, segnato proprio allo spirare del 60° minuto di gioco.
L’allora linebacker dei Giants, l’hall-of-famer Sam Huff, ricordò in seguito di aver pensato: “Va bene, hanno pareggiato. Poco male: vuol dire che ci spartiremo il premio (destinato ai vincitori).” Ma i giocatori, gli oltre 64 mila tifosi presenti sulle tribune dello stadio del Bronx e i milioni di spettatori incollati agli schermi da casa (si badi bene: la partita venne trasmessa in diretta nazionale dalla NBC e, anche questa, fu una prima assoluta per una partita di tale importanza della N.F.L.; chi avrebbe mai detto che oltre 60 anni dopo uno spot pubblicitario durante il Superbowl sarebbe costato circa 150.000 dollari al secondo?) assistettero ad un fondamentale colpo di teatro dell’allora commissioner Bert Bell, personaggio allergico ai pareggi e uomo di grande intuito per lo spettacolo, il quale impose alla squadre di continuare a giocare finché qualcuno non avesse segnato. Erano nati i tempi supplementari, gestiti con la formula della cosiddetta “sudden death”: un’altra prima assoluta, un colpo di scena al termine di una partita fino a quel momento incerta ed emozionante. I Giants beneficiarono del primo possesso, ma la difesa di Baltimore li costrinse al punt. Unitas, nuovamente, condusse l’attacco con precisione metodica e, 80 yard e 12 giochi dopo, il running back dei Colts, Alan Ameche, segnò il touchdown che suggellò il trionfo della squadra del Maryland.
Una partita forse irripetibile, impreziosita dalla presenza di una serie incredibile di campioni ed allenatori leggendari; assieme a Unitas, difesero infatti i colori di Baltimore, solo per citarne alcuni: il wide receiver Raymond Berry, l’half back Lenny Moore ed i difensive linesmen Art Donovan e Gino Marchetti; per i Giants, oltre al già citato Huff, il wide receiver Don Maynard, il difensive End Andy Robustelli e, soprattutto, i due coach Vince Lombardi e Tom Landry.
L’eccitazione (drama, in lingua originale n.d.r.) fu data più dalle circostanze legate alla finale che alla partita in sé, fintanto che non la pareggiammo all’ultimo secondo. E poi è stata la prima partita di playoff a terminare con la sudden death: capirete che creare più eccitazione di così fosse davvero impossibile
John Unitas
Quei due drive leggendari, col primo che portò al field goal del pareggio ed il secondo che condusse i Colts alla gloria nei supplementari, sono rappresentativi, più di ogni altra considerazione statistica (non fate l’errore di paragonare i dati di Unitas con quelli dei quarterback del nuovo millennio: si tratta, praticamente, di due ere diverse), delle capacità tecniche e mentali di Unitas. Il grande coach Don Shula, che ebbe l’onore di allenare Johnny U per sette stagioni, ha puntualizzato che tutto quanto è da ricollegare alla capacità di Unitas di restare nella “tasca”, in modo da dare il tempo necessario ai propri ricevitori di smarcarsi.
Per non parlare della gestione del tempo di gioco: lo stesso Shula accredita a Johnny Unitas l’invenzione del fondamentale “two-minute drill“, ovvero quella serie di schemi d’attacco a cui dare applicazione per macinare campo ed ottenere una segnatura quando il tempo scarseggia. Nessun quarterback, prima di lui, aveva quelle sue determinate caratteristiche, da collegarsi senza dubbio ad una tempra mentale fuori dal comune: Unitas restava calmo davanti all’incedere feroce della linea di difesa avversaria, dava fiducia ai propri uomini di linea che dirigeva metodicamente e scientificamente. Non era in grado di correre come Fran Tankerton o di lanciare con la perfezione di Sonny Jurgensen, ma, piuttosto, era capace di far funzionare qualsiasi schema d’attacco con efficienza e precisione. Senza lo stile innovativo, la preparazione mentale e fisica del mitico numero 19 di Baltimore, che può essere definito senza tema di smentita quale il primo grande quarterback moderno, il football non avrebbe ricevuto, probabilmente ancora per diversi anni, alcuna spinta propulsiva tecnica e di popolarità: sarebbe rimasto un guazzabuglio fangoso, estremamente cruento e vagamente noioso.
A rinforzare il mito di Johnny U, le sue umili origini, il suo carattere schivo e sincero e la sua scalata nel difficile mondo dello sport professionale: prima delle partite, dopo che i capitani degli special team e della difesa avevano terminato di “caricare” la squadra con i loro immancabili discorsi motivazionali, Johnny Unitas, magari rimasto in disparte, appoggiato allo stipite della porta degli spogliatoi, era solito chiosare: “Talk’s cheap, let’s go play!“, frase che può essere localizzata con un efficace: “Le parole stanno a zero: andiamo a giocare!“. Insomma, si può dire che Unitas incarnasse il Sogno Americano, con quella sua attitudine votata al si può fare, così preziosa in un’epoca dove i giocatori professionisti non erano certo milionari. I suoi compagni di squadra lo hanno definito come un uomo “vero”, umile, stoico, semplice ma, allo stesso tempo, esagerato e fuori dall’ordinario.
Senza lo stile innovativo, la preparazione mentale e fisica del mitico numero 19 di Baltimore, il football non avrebbe ricevuto, probabilmente ancora per diversi anni, alcuna spinta propulsiva tecnica e di popolarità: sarebbe rimasto un guazzabuglio fangoso, estremamente cruento e vagamente noioso.
All’inizio della carriera, quando il suo fisico gracile e poco strutturato lo fece precipitare nel draft fino al nono giro, venne addirittura scartato dai Pittsburgh Steelers, all’epoca la franchigia barzelletta della N.F.L., al termine della stagione 1955: Johnny non si arrese e continuò a tenersi in forma e a giocare per 6 dollari a partita per una squadra semi-professionistica di Bloomfield, in Pennsylvania. Un duro, un combattente, con quei capelli “a spazzola” da marine, tanto di moda tra i ragazzini dell’America profonda degli anni Cinquanta e simbolo di dedizione, abnegazione ed impegno (per fare capire quanto Johnny U fu un’icona di un certo tipo di pensiero e di attitudine, la sua acconciatura venne lodata, in una puntata di The Simpsons ambientata nel passato degli anni Sessanta, da Abe Simpson e definita “un taglio di capelli del quale ci si può fidare“, decisamente più apprezzabile della chioma vagamente hippy e sensuale di Joe Namath).
Ma un talento così puro non poteva passare inosservato, tanto che i Colts non se lo lasciarono sfuggire, intuendo le sue potenzialità, e consentendogli una lunga carriera durata ben 18 anni, impreziosita da un Superbowl vinto, 3 titoli NFL, due riconoscimenti quale M.V.P. della lega, 10 selezioni al Pro Bowl e oltre 40.000 yard lanciate. Quando si ritirò, era in possesso di 22 record ufficiali, compreso quello di 47 partite consecutive con almeno un passaggio da touchdown, superato solo nel 2012 da Drew Brees. Ma soprattutto, senza Johnny U, la National Football League non sarebbe forse mai entrata definitivamente nel cuore di un’intera nazione e, pure, non ci sarebbero stati, in epoche successive, Joe Montana, Steve Young, Payton Manning, il già citato Brees, Tom Brady ed Aaron Rodgers.
La sua grande generosità sul campo, il suo coraggio e il suo stile di gioco, purtroppo, gli sono stati fatali durante gli anni che hanno seguito il ritiro dal football giocato: i numerosi infortuni (al braccio soprattutto, ma anche ad entrambe le ginocchia) l’hanno reso alquanto debole e fragile fisicamente e, proprio al termine di una seduta di riabilitazione, ha trovato la morte nel 2002, a soli 69 anni. Ma la sua passione per il football (dimostrata da tanti anni come abile commentatore tecnico per diversi network televisivi, dalle sue battaglie contro il “trasloco” dei Colts da Baltimore ad Indianapolis e, infine, dalla sua vicinanza alla “nuova” franchigia dei Baltimore Ravens), la sua umanità e la sua leggenda, così straordinaria ma così reale e semplice, non potrà essere dimenticata facilmente da nessuno sportivo americano e da nessun appassionato di football.