Che facciamo con Menotti? Dicono che è comunista…
Era il 1976 quando l’ammiraglio Carlos Alberto Lacoste, detto “Il francese”, venne messo a capo dell’organizzazione del mondiale argentino. Lacoste era uno dei più influenti esponenti dell’ala antiperonista delle forze armate ed è forse per questo che la junta, appena salita al potere tramite il colpo di stato del marzo dello stesso anno, decise di affidargli uno dei compiti più delicati del Processo di riorganizzazione nazionale: organizzare i campionati del mondo del 1978. Un evento che, considerati gli avvenimenti, nel modo giusto sarebbe potuto diventare uno strumento per rafforzare il consenso e legittimare un governo militare di stampo autarchico. Una dittatura quella di Videla, Massera e Agosti che assassinò e torturò 30.000 persone nella complicità di molti Stati occidentali. La prima cosa che Lacoste tentò di fare fu quella di togliere l’imbarazzo dei golpisti davanti al logo del Mondiale: due braccia stilizzate che cingevano un pallone da calcio a scacchi bianchi e neri. L’imbarazzo era tutto in quelle braccia che altro non erano che quelle di Juan Domingo Perón, colui che fu il vero promotore del mondiale argentino. Purtroppo per Lacoste, il numero di cause giudiziarie a cui sarebbe andato incontro il Paese per modificare il logo lo fece desistere. Fallita la prima missione, Lacoste si concentrò sull’allenatore. L’argomento uscì solo una volta, quando l’ammiraglio incontrò Hector Vega Onesime, direttore di El Grafico, settimanale sportivo del gruppo Atlantida, la casa editrice più importante del Paese e di fatto un’estensione del regime. Quando il militare domandò dell’allenatore più stimato d’Argentina e delle sue simpatie politiche, nella stanza calò un inquietante silenzio. Onesime ci mise un po’, ma alla fine trovò il coraggio e rispose: “E questo che c’entra?“. Nessuno ritornò più sull’argomento. Ai generali interessava più di ogni altra cosa vincere la Coppa del Mondo e, dato che erano più esperti di sparizioni e torture che di calcio, si affidarono alla stampa nazionale che in coro vedeva Menotti l’unico in grado di guidare la Selección.
Luis Cesar Menotti, noto come El Flaco, era un allenatore moderno che, per usare le sue parole, “cercava l’efficacia della bellezza“. Di lui il filosofo Tomas Abraham disse: “Nel 1978 rinchiuse i giocatori per mesi in un laboratorio, senza donne, a cibarsi di vitamine e a giocare“. Chimico mancato, di simpatie comuniste, amava suonare al piano Scarlatti e Vivaldi e aveva un concetto della bellezza tutto suo (durante la sua breve esperienza in Italia disse: “La Fiorentina dovrebbe giocare secondo i tratti di Michelangelo o il genio di Leonardo, perché quello è il suo patrimonio e quello deve essere il suo stile“). Menotti rifiutava lo “stile europeo” sempre più prevalente nelle idee calcistiche del Paese.
Dobbiamo liberarci dell’idea che per vincere dobbiamo giocare come gli europei. Il concetto errato è stato pensare che non saremmo stati in grado di competere con loro fisicamente.
Al calcio totale olandese contrapponeva la tecnica individuale, come da tradizione argentina. Una personalità difficile il cui rapporto con la junta rimane tuttora controverso. Il suo stile e il suo approccio si sposavano bene con la retorica militare: chiamava il suo lavoro di ricostruzione della Nazionale “El proceso”, terribilmente affine al Proceso de Reorganización Nacional, il nome con cui la junta definiva la propria dittatura, e il suo stile di gioco “defensa del estilo argentino”; un linguaggio paurosamente simile a quello usato dal governo autarchico in un periodo storico in cui mentre la nazionale argentina vinceva il suo primo Mondiale le madri dei desaparecidos protestavano con un fazzoletto bianco sulla testa in Plaza de Mayo.
È un discorso miserabile. Un Mondiale non è undici giocatori e un allenatore. Si fa con milioni di persone. Una dittatura è lo stesso. Ci vogliono i dittatori e milioni di complici. In Argentina, oggi vedo ancora in auge molti che nel 1978 stavano con i generali. Non li critico. Ma non mi vengano a dire che ero come loro.
Menotti non simpatizzatava per la dittatura e molte delle cose che furono dette su di lui sono risultate false; si diceva che in ritiro avesse addirittura una Smith&Wesson. Di Videla disse che non sapeva parlare, “era uno senza qualità“. Eppure Menotti, caduta la dittatura, dovette giustificarsi per essere stato l’allenatore della Selección in quel periodo, e delle foto di circostanza fatte insieme ai gerarchi.
Oggi non le rifarei. Ma è facile parlare adesso. Nessuno aveva i coglioni di dirlo allora. Fui usato, chiaro. Il potere che sfrutta lo sport è vecchio come l’umanità, i feudatari strumentalizzavano i cavalieri dei tornei. Ricordo Pertini che tornò dalla Spagna con Bearzot: se l’Italia avesse perso, se lo sarebbe portato sull’aereo presidenziale? Però il calcio è solo calcio: l’Italia del ’32 non vinse perché c’era Mussolini, ma perché era forte. Videla era il presidente dell’Argentina, non potevo impedirgli io d’entrare allo stadio. Nessuno immaginava che in quelle ore stava buttando i cadaveri nel fiume. Si fosse saputo, i lavoratori, i contadini, gli intellettuali, i calciatori, tutti avremmo dovuto uscire e chiedere la fine di quella merda. Ma la lotta politica è una cosa più grande del calcio. Se il Milan vince la domenica, qualcuno crede davvero che il lunedì starà meglio? Lo spettacolo non è la vita. E se un Berlusconi va al governo, beh, che almeno faccia per l’Italia un decimo di quel che ha fatto Baresi per il Milan.
E ben riecheggiano ancora le sue parole nello spogliatoio prima di quella fatidica finale del 1978:
Non vinciamo per quei figli di puttana. Vinciamo per il nostro popolo.
Un allenatore controverso le cui idee politiche sono sempre state la base delle sue teorie tecniche. Per lui destra e sinistra sono ancora due punti cardini per inquadrare il mondo, anche quello del calcio. Un calcio muscolare, veloce, egoista, utilitaristico che non pensa allo spettacolo è un calcio di destra; la sinistra è più legata ai creativi, agli innovatori in grado di cambiare la storia. Per Menotti il non plus ultra del calcio di sinistra è Ibrahimovic. La destra è azione, la sinistra è pensiero. E come amava ripetere:
Puoi smettere di correre, puoi non entrare in gioco per un bel po’, l’unica cosa che non puoi smettere di fare è pensare.