Sister Rosetta Tharpe

Sister Rosetta Tharpe: la donna che insegnò al rock’n’roll come si suona la chitarra

La storia di Sister Rosetta Tharpe comincia in un luogo che sembra uscito da un romanzo di Faulkner: Cotton Plant, Arkansas, 1915. Un nome che suona quasi simbolico, perché lì il cotone non è solo una coltura, è una condanna e un destino. I campi si stendono all’orizzonte come tappeti bianchi che accecano al sole, raccolti da mani nere e stanche. In quel mondo segnato dalla segregazione razziale, dalla povertà e da un cristianesimo ardente, nascere donna e nera significa trovarsi in fondo a una scala sociale che non prevede salite… Ma è proprio da quei margini della società che prende avvio una rivoluzione silenziosa. E ha il suono di una chitarra.

I genitori di Rosetta, Katie Bell Nubin e Willis Atkins, lavorano nei campi, ma la musica scorre nelle vene di entrambi. Katie, in particolare, è molto più di una semplice raccoglitrice: è una predicatrice itinerante, appartenente alla Church of God in Christ, una delle rare denominazioni cristiane che permettono alle donne di salire sul pulpito e di suonare strumenti durante le funzioni. È lei a rompere gli schemi, a incarnare l’idea di una fede vissuta come vocazione attiva, come strumento di riscatto e affermazione. Con la sua voce e il suo mandolino attraversa le contee del Sud predicando il Vangelo, accompagnata da una bambina prodigiosa che già a quattro anni tiene tra le mani una chitarra.

Quella bambina è Rosetta. E quando sale su un palco – o più spesso su una cassa di legno improvvisata – incanta. Cantano insieme, madre e figlia, in chiese gremite di volti segnati dalla fatica, in baracche convertite in templi della speranza. Ogni tappa è un’esperienza che forma, che nutre, che trasmette un messaggio più grande della semplice musica: quello di una fede che si intreccia al desiderio di giustizia, di dignità, di libertà.

Per la comunità afroamericana del tempo, il gospel non è intrattenimento. È un balsamo per l’anima. È lo sfogo rituale di chi ha vissuto secoli di schiavitù, è la voce collettiva che trasforma il dolore in forza. Le chiese sono il centro pulsante della vita sociale e culturale, i cori sono laboratori di libertà spirituale e musicale. Lì si canta per restare umani, per sentirsi ascoltati da un Dio che almeno lì, in quel momento, sembra presente. Ed è in questo humus che cresce Rosetta, immersa in melodie cariche di pathos, nei ritmi battuti con mani e piedi, tra grida di giubilo e pianti trattenuti.

La sua identità musicale prende forma proprio lì: in quell’incrocio tra devozione e ritmo, tra spiritualità e improvvisazione, dove la musica diventa linguaggio di salvezza e di resistenza. In un mondo che non le concede nulla, Rosetta ha già una voce. E presto, avrà anche qualcosa di ancora più potente: il suono di una chitarra elettrica che squarcerà il silenzio di un’epoca intera.

Chicago e New York: dal pulpito al palcoscenico

Nel 1920, Rosetta e sua madre fanno i bagagli e lasciano il Sud per inseguire qualcosa di più di una semplice occasione: partono con la corrente impetuosa della Grande Migrazione afroamericana, il più grande spostamento interno nella storia degli Stati Uniti. Milioni di uomini e donne nere fuggono dai morsi della segregazione del Sud per cercare una vita migliore nelle città industrializzate del Nord. Chicago è una delle loro principali destinazioni: una metropoli rumorosa, frenetica, dove si costruiscono treni e si suonano trombe, dove il blues dei delta incontra i ritmi urbani del jazz e i canti gospel risuonano tra i mattoni delle chiese battiste.

Per Rosetta, adolescente prodigio, Chicago è una rivelazione. Le chiese restano un rifugio, ma ora la musica è ovunque: nei teatri di South Side, nei locali dove si esibiscono giganti come Louis Armstrong e Bessie Smith, nei club pieni di fumo dove il sacro e il profano si mescolano ogni notte, davanti a un pubblico affamato di ritmo e catarsi.

È qui che Rosetta comincia a sentire che la sua musica non appartiene solo a Dio, ma anche al mondo. Nasce una doppia esistenza musicale: di giorno canta nei culti domenicali, predicando con la voce e la chitarra, di notte si ritrova a calcare i palchi dei locali, portando i brani sacri a vibrare con nuove sfumature, tra jazz e swing. Questa scelta le costa l’ostracismo di molti ambienti religiosi, che la accusano di contaminare la purezza del gospel con i ritmi del peccato. Ma Rosetta non arretra. È una giovane donna libera, e la musica è il suo modo per dirlo al mondo.

Nel 1934, spinta forse da un desiderio di stabilità o da pressioni sociali, si sposa con Thomas Thorpe, un predicatore. Il matrimonio si rivela presto un errore: opprimente, rigido, lontano dalla natura vivace e indipendente di Rosetta. Nonostante le convenzioni dell’epoca, decide di lasciarlo. E con un piccolo errore di trascrizione anagrafica – Thorpe che diventa Tharpe – prende anche simbolicamente le distanze da quel capitolo della sua vita, facendo del nuovo cognome il suo nome d’arte.

Rosetta si trasferisce quindi a New York City, la capitale della modernità, con sua madre al seguito. È l’inizio della sua seconda nascita artistica, in un’epoca in cui Harlem è nel pieno della sua rinascita culturale: pittori, poeti, musicisti afroamericani ridefiniscono il concetto di arte e identità nera. In mezzo a questa effervescenza, Rosetta trova finalmente spazio per emergere.

Nel 1938, a soli 23 anni, firma un contratto con la prestigiosa Decca Records. Entra in studio e incide una serie di brani destinati a cambiare la storia: Rock Me, This Train, The Lonesome Road. Sono spiritual, sì, ma irriverenti. Dentro c’è gospel, certo, ma anche il battito del jazz, la malinconia del blues, la leggerezza dello swing. E poi c’è quella chitarra, suonata con una sicurezza e un’elettricità che nessuno aveva mai sentito prima. Rosetta non accompagna la musica: la guida, la comanda, la stravolge.

Il successo è immediato. Sister Rosetta Tharpe diventa la prima artista gospel ad abbattere le barriere commerciali, a vendere dischi in grande quantità, a farsi applaudire tanto dai fedeli quanto dai frequentatori dei club notturni. La sua voce riempie sale leggendarie come il Cotton Club di Harlem, dove aveva brillato Duke Ellington, e la prestigiosa Carnegie Hall, dove il gospel fino ad allora non aveva mai osato mettere piede.

In quegli anni, la musica americana vive una trasformazione radicale. Ma se si osserva con attenzione, le radici del cambiamento sono già tutte lì, in quella giovane donna nera che canta Dio con la stessa energia con cui fa ballare il diavolo. Rosetta ha preso il fuoco sacro del gospel e lo ha fatto esplodere in una nuova lingua sonora. Una lingua che, da lì a poco, il mondo intero chiamerà rock’n’roll.

Una donna con la chitarra: quando il gospel diventa rock

L’immagine di Rosetta ancora oggi sorprende e spiazza: una donna nera, negli anni Quaranta, in abito elegante e scarpe col tacco, che impugna una chitarra elettrica con l’autorità di un capo orchestra. Mentre molte cantanti sono ancora relegate a ruoli da interpreti – voci meravigliose, sì, ma spesso al servizio di orchestre e arrangiatori uomini – Rosetta fa tutto da sola. Scrive, suona, arrangia, inventa. Le sue performance sono una sintesi esplosiva di tecnica e carisma. Il suo stile chitarristico è percussivo, ricco di slide, con un uso pionieristico della distorsione, capace di evocare l’energia grezza del blues e la trascendenza del gospel in un colpo solo.

In quegli anni, il gospel era ancora strettamente legato alla chiesa: uno spazio sacro, protetto, comunitario. Ma Rosetta osa ciò che nessuno aveva ancora fatto: lo strappa dal pulpito e lo porta nei club, nei teatri, nei dischi in vinile e poi nelle radio. Rende popolare qualcosa che, fino a quel momento, era considerato esclusivamente spirituale. Una provocazione inaccettabile per molti membri delle congregazioni religiose nere, che la accusano di vendere l’anima per il successo. Ma per lei, suonare non era tradire Dio, è parlare un linguaggio universale.

I suoi testi parlavano di fede, ma i ritmi, l’energia e la sensualità delle sue interpretazioni raccontano anche altro. Rosetta non censura né la sua femminilità né la sua libertà. E il fatto che fosse donna, nera e musicista professionista, in un’industria dominata da uomini bianchi, rende la sua presenza una vera e propria rivoluzione ambulante.

Il momento che cristallizza questa svolta arriva nel 1944, quando incide Strange Things Happening Every Day con il pianista jazz Sammy Price. Il brano, un gospel trascinante e pieno di groove, entra nella Harlem Hit Parade, la classifica riservata alla musica afroamericana della rivista Billboard. Ma non è solo una canzone di successo: molti storici e critici musicali lo considerano il primo disco autenticamente rock’n’roll.

Tour, amore e resistenza

Durante gli anni bui della Seconda guerra mondiale, mentre il mondo combatte contro il nazismo e il fascismo, gli Stati Uniti rimangono profondamente segnati da un altro nemico interno: la segregazione razziale. Per Sister Rosetta Tharpe, artista in ascesa e donna nera in viaggio costante, le strade d’America sono una sfida continua. Gli alberghi sono vietati, i ristoranti negano l’ingresso, le aree di sosta hanno ingressi separati, e persino i bagni pubblici sono divisi per razza. La libertà che canta sul palco, nella realtà quotidiana, è costantemente ostacolata da leggi e costumi che discriminano il suo corpo e la sua esistenza.

Ma Rosetta è troppo avanti per lasciarsi fermare da queste barriere. Decide allora di prendere il controllo del proprio percorso, letteralmente: compra un autobus, lo attrezza con letto, cucina, sedili comodi, e lo trasforma in una casa su ruote. Non solo evita l’umiliazione degli spazi negati, ma inventa – con incredibile lungimiranza – il primo tour bus della storia del rock. Un veicolo che non è solo mezzo di trasporto, ma rifugio, quartier generale, simbolo itinerante di emancipazione.

È in questo contesto di resistenza e mobilità che Rosetta incontra Marie Knight, giovane cantante dal timbro profondo e dall’eleganza magnetica. Le due si piacciono subito: artisticamente, umanamente, forse anche sentimentalmente. Formano un duo esplosivo, sia sul palco che fuori. Insieme registrano alcuni dei brani più trascinanti e innovativi della loro epoca, tra cui Up Above My Head, che diventa uno dei cavalli di battaglia di Rosetta.

Il pubblico le adora, ma il mondo le osserva con diffidenza. Una coppia di donne nere, in viaggio insieme, in un’epoca di pruderie morale e razzismo sistemico, è qualcosa che non si sa come raccontare. E allora si sussurra, si critica, si ignora. Ma Rosetta non si cura delle voci. La sua missione è chiara: vivere, suonare, amare liberamente, in barba alle regole imposte da una società che vorrebbe le donne – e soprattutto le donne nere – silenziose e obbedienti.

Nel 1951, al culmine della sua fama, Rosetta decide di sposarsi. Ma come sempre, lo fa a modo suo. Non una cerimonia intima in chiesa. No. Affitta uno stadio a Washington D.C., vende 25.000 biglietti per partecipare all’evento, e trasforma il suo matrimonio con il manager Russell Morrison in un vero e proprio concerto spettacolo. Dopo il “sì”, imbraccia la chitarra, sale sul palco e canta per ore davanti a una folla estasiata. La stampa impazzisce, i fan acclamano, e la storia della musica si arricchisce di una nuova, indimenticabile prima volta.

Questa è Sister Rosetta Tharpe. Cantante, chitarrista, pioniera. E sopra ogni cosa, donna libera in un tempo che la voleva incatenata.

L’oblio, il riconoscimento e l’eredità che vibra ancora

Gli anni Cinquanta, che per molti sono l’epoca d’oro del rock’n’roll, per Sister Rosetta Tharpe segnano l’inizio di un’ombra immeritata. L’industria musicale americana, spinta dalla fame di nuovi idoli, sceglie di puntare sul rock “bianco”: volti nuovi, facilmente vendibili nei cinema, nelle radio, nei programmi televisivi che stanno definendo l’immaginario di una nuova generazione. Tra questi c’è Elvis Presley, che prenderà molto – quasi tutto – dalla tradizione nera del gospel e del rhythm & blues. Ma, a suo onore, Elvis non ha mai nascosto l’influenza che Rosetta ha avuto su di lui.

Il problema non è lui. Il problema è il sistema.

Rosetta viene lentamente emarginata. Troppo religiosa per i club secolari, troppo “contaminata” per le chiese tradizionaliste. Troppo donna, troppo nera, troppo rivoluzionaria per un mondo che vuole facce giovani e omologate. La sua chitarra, un tempo celebrata, diventa silenziosa per le radio mainstream. Ma non per chi sa ascoltare davvero. Perché i veri padri del rock, quelli che stavano scrivendo le prime righe della sua storia, riconoscono il suo ruolo senza esitazioni. Chuck Berry, l’uomo dei riff che sarebbero diventati il linguaggio ufficiale del rock’n’roll, dichiarerà con disarmante onestà:

La mia carriera è stata una lunga imitazione di Sister Rosetta Tharpe.

Johnny Cash, l’uomo in nero, la cita tra le sue principali ispirazioni nel discorso di ammissione alla Rock and Roll Hall of Fame. Bob Dylan, la voce di una generazione, racconterà di come molti giovani musicisti inglesi iniziarono a suonare la chitarra dopo averla vista esibirsi in Inghilterra, nel 1964.

E quella esibizione è leggendaria.

Un giorno grigio, piovoso. Una vecchia stazione ferroviaria, la Wilbraham Road Station nei sobborghi di Manchester. I binari trasformati in palco, le banchine come tribune. Sotto la pioggia, Rosetta appare, con la sua chitarra elettrica e il suo sorriso indomito. Intona Didn’t It Rain, e non piove più soltanto dal cielo, ma dentro il cuore di chi ascolta. Tra il pubblico ci sono giovanissimi Eric Clapton, Jeff Beck, Keith Richards. La leggenda dice che fu proprio quel giorno che decisero cosa volevano diventare.

È l’ultima grande lezione pubblica di Rosetta. L’ultima, ma sufficiente per rimettere i conti in ordine. Sul quel palco bagnato, con le dita che sfiorano corde ancora una volta ribelli, Rosetta dimostra una verità che troppi hanno ignorato: il rock’n’roll non ha età, non ha genere, non ha colore. Ha solo un’attitudine. E lei quell’attitudine ce l’ha sempre avuta. Prima e più di tutti.

Quando muore il 9 ottobre 1973, Rosetta è malata, quasi dimenticata, lontana dai riflettori. Ma la sua eredità è già ovunque. Vive nel suono di una chitarra distorta, in ogni palco calcato da una donna con qualcosa da dire, in ogni artista che osa mischiare sacro e profano, tradizione e ribellione. Vive in ogni riff che ti fa vibrare il petto, in ogni shout che scuote l’anima.

Nel 2018, quarantacinque anni dopo la sua morte, Sister Rosetta Tharpe viene finalmente introdotta nella Rock and Roll Hall of Fame. Non come una nota a piè di pagina, non come un’eccezione caritatevole. Lì, sul sito ufficiale, oggi si legge:

Senza Sister Rosetta Tharpe, il rock and roll sarebbe una musica diversa. Lei è la madre fondatrice che ha dato l’idea ai padri fondatori del rock.

Un riconoscimento tardivo, ma sacrosanto.

E allora, la prossima volta che sentirai una chitarra che canta più forte di mille parole, o una voce che non chiede il permesso di esistere, ricordati di lei. Di quella bambina di Cotton Plant, Arkansas, che prese in mano una chitarra e insegnò al mondo come si suona la libertà.

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