distrazione

E se la crisi d’attenzione fosse solo una distrazione?

Ogni anno si premiano i migliori film, ma nessuno premia i migliori TikTok. Un peccato, perché il 2024 ha partorito delle autentiche gemme. Come il video di @yojairyjaimee, un minuto perfetto che ricrea una scena surreale del 2009 con Kanye West (oggi Ye). O quei dodici secondi di fragole al cioccolato filmati dal punto di vista di un sassofonista R&B, o ancora il cane volante di @notkenna, creato con effetti così ridicoli da risultare irresistibili. La poetessa Patricia Lockwood li ha definiti “zaffiri dell’istante“: momenti brevi, brillanti, ipnotici.

Eppure, basta restarci troppo a lungo per sentire il contraccolpo: guardare TikTok per ore è come farsi sparare fuochi d’artificio in faccia. L’abbiamo capito, lo sospettiamo da tempo: tutto questo può davvero farci male?

Nel 2010 Nicholas Carr lanciava l’allarme in The Shallows, libro finalista al Pulitzer, dove raccontava di come internet stesse erodendo la nostra capacità di concentrazione. Citava un brillante studente di filosofia — un Rhodes Scholar — che non leggeva più libri ma imparava solo da Google. Da allora, il mercato si è riempito di saggi preoccupati; Superbloom, l’ultima opera dello stesso Carr, parla di una “frammentazione della coscienza” e di un mondo reso “incomprensibile dalle informazioni“. Forse il contributo più raffinato è di Chris Hayes, conduttore di MSNBC, che con The Sirens’ Call paragona i social media a un casinò aperto 24/7: suoni, luci, notifiche, tutto progettato per catturare — e vendere — la nostra attenzione. Pensare lucidamente, dice, oggi è come cercare di meditare in uno strip club.

Ma se ogni epoca ha temuto le nuove tecnologie, quanto è diversa la nostra? Lo psichiatra Jean-Étienne Dominique Esquirol nel XIX secolo diagnosticava la “monomania” come male tipico della modernità. Lo scrittore Nathaniel Hawthorne temeva che le stufe avrebbero ucciso la conversazione. Thomas Jefferson pensava che i romanzi — oggi sinonimo di lettura seria — avrebbero causato “un giudizio malaticcio“. Ogni generazione si è lamentata della successiva. E se la crisi dell’attenzione fosse, appunto, solo un nuovo capitolo di questa ansia ciclica?

Ma c’è chi non la pensa così. Alcuni ritengono che TikTok sia differente: ci osserva, impara da noi, ci ripropone esattamente ciò che tiene il nostro pollice in movimento. “Ha perforato il dominio sulle nostre menti“, scrive Hayes. Non si tratta più di guardare passivamente: è l’algoritmo che ci studia e ci serve la nostra dose.

Nel 2014 l’ingegnere Nir Eyal scrisse Hooked, il manuale che spiegava alle aziende come rendere le app irresistibili. Quel libro — adorato dai tecnocrati della Silicon Valley — descriveva le dinamiche che creano abitudine: gratificazioni imprevedibili, notifiche mirate, la famosa “slot machine” psicologica in tasca.

Ma cinque anni dopo, Eyal ha cambiato rotta. In Indistractable ha ammesso, in un certo senso, di aver aiutato a costruire il problema. Ora però propone un metodo per tornare a prenderci cura della nostra attenzione. Il suo messaggio? Non è colpa della tecnologia. È nostra. Non siamo drogati di Instagram: ci rifugiamo lì per fuggire da emozioni spiacevoli — noia, solitudine, insicurezza. La distrazione è una risposta psicologica mal calibrata, non una malattia digitale.

Per diventare “indistraibili”, dice Eyal, dobbiamo prima capire perché ci distraiamo. Serve un lavoro interiore: come chi vuole dimagrire e deve prima chiedersi perché mangia troppo, non solo cosa. E propone soluzioni pratiche: tenere il telefono silenzioso, velocizzare le mail, stipulare patti con se stessi e con gli altri per accorgersi di quando ci si distrae. È un manuale per la consapevolezza, non per la disintossicazione.

Il libro di Eyal si inserisce in un cambiamento culturale più ampio: quello della crescente diffidenza verso le tecnologie digitali, proprio da parte di chi, fino a poco tempo fa, ne esaltava il potenziale. Come osserva il New York Times, oggi anche ex dirigenti di colossi come Facebook e WhatsApp sono diventati critici dichiarati dell’ecosistema digitale che hanno contribuito a costruire. E sempre più spesso si parla di tecniche per ridurre l’uso compulsivo di app, o addirittura di veri e propri strumenti per disintossicarsi.

Il cambiamento è tale che studiosi come B.J. Fogg, del Behavior Design Lab di Stanford, hanno previsto l’emergere di un “movimento post-digitale”, pronto a trattare l’uso eccessivo dello smartphone con la stessa serietà con cui, un tempo, si parlava del fumo.

Non ci stanno iniettando Instagram in vena. Sono cose che facciamo noi, ma ci piace raccontarci che sia la tecnologia che ce le sta facendo fare.

Indistractable, Nir Eyal

Ma anche tra i critici del mondo tech le posizioni non sono univoche. Alcuni vedono in questa posizione un comodo cambio di bandiera: sostengono che chi oggi scrive guide per “liberarsi” è spesso lo stesso che, fino a ieri, spiegava come tenerci incollati allo schermo. In fondo, si chiedono, non è solo una nuova forma di marketing? Prima il veleno, ora l’antidoto.

Ma molti dei timori sulla distrazione provengono dalla “classe della conoscenza”: scrittori, accademici, giornalisti. Sono persone che vivono di attenzione, e per questo temono che il loro pubblico venga rubato da video virali, meme e scroll infiniti. In questo senso, la crisi dell’attenzione è anche una crisi d’autorità. Le persone non leggono meno: leggono altrove. Guardano YouTube, ascoltano podcast lunghissimi, giocano a videogiochi da 100 ore. Fanno binge-watching (l’abitudine di guardare più episodi di una serie TV o di un programma televisivo consecutivamente e senza pause). Forse non si stanno distraendo, ma concentrando su qualcos’altro.

Dopo decenni di vita online, il panorama mediatico non è collassato in un caos di clip da tre secondi con gattini, orgasmi e incidenti da trampolino, intervallati da pubblicità di scommesse sportive. Al contrario, come osserva lo studioso Tim Wu in The Attention Merchants, la strada verso la distrazione non è affatto a senso unico. È vero: le aziende digitali hanno imparato a catturare la nostra attenzione con ogni trucco disponibile. Ma noi, in risposta, ci adattiamo. Sviluppiamo anticorpi. Forse è anche per questo che stanno tornando in auge pratiche come la meditazione, il birdwatching o il collezionismo di vinili: piccoli rifugi, scelte lente in un mondo accelerato.

Non è un caso, d’altronde, che molte delle stesse aziende tech oggi vendano “semplicità”. Apple è diventata un colosso proprio promettendo ambienti ordinati, senza distrazioni. E già nei primi anni 2000, Google offriva tregua dal caos con i suoi filtri antispam e gli annunci testuali. Ironia della sorte: le piattaforme che prima creavano il rumore ora vendono silenzio.

C’è anche un altro punto chiave: ogni volta che ci distraiamo da qualcosa, ci stiamo concentrando su qualcos’altro. Ed è difficile parlare di crisi della concentrazione se milioni di persone passano ore ipnotizzate davanti ai propri schermi. Il doomscrolling, per quanto tossico, non è forse una forma di lettura ossessiva?

Prendiamo il cinema. Se davvero fossimo diventati incapaci di restare su qualcosa più di tre minuti, come si spiega il ritorno dei film lunghi, complessi e stratificati? Uno dei vincitori degli Oscar, The Brutalist, supera le tre ore e mezza. La durata media dei blockbuster è cresciuta di venti minuti negli ultimi trent’anni. Certo, Hollywood è ossessionata dai sequel e dalla proprietà intellettuale riciclata (manca poco a un crossover tra Thor e la Sirenetta), ma in cambio ha prodotto storie dense e piene di riferimenti. Non proprio cose da attenzione labile.

Lo stesso vale per la televisione. Un tempo era fatta per essere “guardata distrattamente”, con trame semplici e personaggi da sitcom. Oggi, invece, le serie sono sempre più complesse. Da quando gli autori hanno smesso di preoccuparsi che il pubblico perdesse il filo, i loro show sono diventati veri e propri film a puntate. E il pubblico ha risposto: binge-watching.

E i videogiochi? Sono diventati delle maratone narrative. Nel 2023 Baldur’s Gate 3, un’opera imponente fatta di divinità rivali, draghi e incantesimi, ha vinto ogni premio possibile. Un gioco a turni, con regole complesse e centinaia di ore di gameplay. I suoi sviluppatori? Quattrocento persone, duecentoquarantotto attori. Il tempo medio per finirlo? Almeno 75 ore, il doppio se vuoi esplorare tutto. E ha venduto più di quindici milioni di copie. Altro che TikTok-style.

Ma a proposito: anche TikTok merita una rivalutazione. Chris Hayes lo descrive come una scatola idiota, personalizzata dall’algoritmo. Ma TikTok non è solo intrattenimento passivo. C’è chi passa ore a provare mosse di danza, sincronizzare il playback, studiare effetti visivi, inventare sketch, costruire mondi in miniatura. È lavoro creativo, amatoriale sì, ma ossessivamente meticoloso.

Quindi, che fare? Forse la risposta non è né il catastrofismo né l’autoassoluzione. Il nostro rapporto con gli schermi è complesso, sfumato, a volte tossico. Ma ridurre tutto a un’epidemia di ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività) collettivo è un errore di diagnosi. Serve invece uno sguardo più ampio: capire che stiamo vivendo un’epoca che mescola concentrazione estrema e distrazione fulminea, saggi da 700 pagine e video da 7 secondi, attivismo e intrattenimento.

Il punto, allora, non è eliminare la distrazione, ma riconoscere che anche lì si nasconde una forma di attenzione. Magari breve, magari frammentata, ma non priva di senso. E forse, come suggerisce Eyal, possiamo imparare a scegliere quando essere davvero presenti. A tornare padroni del nostro tempo. Non per diventare monaci digitali, ma per ricordarci che possiamo ancora scegliere.

Non è la fine della concentrazione. È solo l’inizio di un nuovo tipo di consapevolezza.

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