Nel 2016, un investitore immobiliare americano di nome James Strole ha fondato la Coalition for Radical Life Extension, un’organizzazione no-profit con sede in Arizona che mira a rafforzare il sostegno verso gli studi della gerontologia, con la speranza che un giorno possa prolungare in modo significativo la vita umana. Sebbene la medicina moderna ci consenta di vivere più a lungo che mai, la sua preoccupazione non riguarda semplicemente un paio di anni extra; è interessato a prolungare la vita di decenni e persino secoli, fino a quando la morte non diventi opzionale- “Il paradigma della morte deve sparire” – si legge sul sito web della Coalizione – È tempo di guardare oltre la storia della morte e abbracciare un futuro di vita illimitata“.
Tutti noi siamo spesso ossessionati dall’immortalità. Più di tutti lo sono le persone ricche possono permettersi di aspirare a questo miracolo. Peter Thiel, il miliardario venture capitalist, ad esempio, ha accettato la possibilità di ricevere trasfusioni di sangue da giovani donatori, una procedura che alcuni esperimenti sui topi hanno dimostrato di poter prolungare la vita. Anche Jeff Bezos sembra avere una preoccupazione simile, come indicato dal suo fisico ben definito. E ancora, persone, come il fervente sostenitore della longevità Bryan Johnson, adottano misure estreme per monitorare la loro salute e l’invecchiamento, facendo uso ad esempio di dispositivi che monitorano la qualità delle erezioni notturne. L’American Association of Medicine ha dovuto condannare pubblicamente la vendita degli “ormoni antietà”, un’industria che si stima valga 50 miliardi di dollari, perché non ci sono evidenze scientifiche sulla loro efficacia.
L’allungamento della vita è un compromesso, però: bisogna bilanciare il tempo guadagnato con quello perso nel tentativo di ottenerlo. Quando Jackie Onassis apprese di essere malata del linfoma non Hodgkin, si dice che abbia rimpianto di aver perso così tanto tempo in palestra. C’è anche il fatto scoraggiante che gli anni in più, se ce ne sono, arrivano alla fine della vita, quando ormai, ricchi e non, iniziamo a sentirsi stanchi e annoiati. Einstein scrisse che “la distinzione tra passato, presente e futuro è solo un’illusione ostinatamente persistente“. È presumibile che non intendesse dire che, dopo la morte, si aspettava di viaggiare avanti e indietro attraverso la sua vita, ma le sue parole suggeriscono una prospettiva intrigante: forse il modo più semplice per estendere la vita è guardare all’indietro, aggiungendo anni nella nostra memoria. Ormai è assodato che il nostro cervello è fatto per dimenticare: per fare spazio a nuovi ricordi vengono cancellati e poi spostati quelli vecchi, in una zona di immagazzinamento a lungo termine. Di conseguenza, cancelliamo gran parte della nostra esistenza, e quello che ci rimane sono pochi e selezionati eventi della nostra vita. Le fasi avanzate di malattie come l’Alzheimer sono spesso descritte come una sorta di morte vivente: se non si può ricordare la propria vita, ci si può ancora considerare vivi? Dimenticare è biologicamente una necessità, eppure giorno dopo giorno i momenti più ordinari della nostra vita ci sfilano via; è come se con il tempo la nostra vita si assottigliasse e alla fine cosa ci resta?
Potremmo essere tentati di desiderare di ricordare tutto, ma ci troveremmo di fronte al dilemma di Borges. Nel suo racconto Funes el memorioso lo scrittore argentino narra la storia di un giovane, Ireneo Funes, la cui condanna è quella di avere una prodigiosa memoria che gli permette di cogliere ogni dettaglio di tutto ciò che lo circonda. “Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso […]Gli era molto difficile distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano”. La storia di Funes rimanda a quella vera di Jill Price, meglio conosciuta come La donna che non può dimenticare. Jill è in grado di ricordare tutta la sua vita, dall’infanzia in poi, in dettagli straordinari. Nella sua autobiografia scrive: “I miei ricordi sono come scene di un film che continuano a ripetersi nella mia testa, avanti e indietro attraverso gli anni in modo implacabile“. Price è stata la prima persona ad essere diagnostica di sindrome ipertimesica (HSAM). Il suo caso è stato ampiamente studiato da James McGaugh e dai suoi colleghi dell’Università della California, Irvine. Durante gli studi, i ricercatori menzionavano un evento di attualità, e senza esitazione lei forniva la data e il giorno della settimana in cui si era verificato, oppure loro le davano una data e lei collegava un evento accaduto in quel giorno. McGaugh e il suo team alla fine hanno identificato circa un centinaio di persone con HSAM. Una di loro è l’attrice e autrice Marilu Henner, la quale a differenza di Price, si compiace della sua abilità. “È qualcosa che mi fa sentire davvero bene, e non riesco a immaginare di non averla”. Il libro di Henner Total Memory Makeover è un suo sforzo per aiutarci a sviluppare quello che lei definisce il nostro “muscolo cerebrale” – un obiettivo desiderabile, poiché è convinta che la memoria può essere un potente fattore per prolungare la propria vita. “Esplorando davvero il tuo passato, o ricordandolo in qualche modo, ottieni un pezzo della tua vita”, scrive.
Henner descrive una buona memoria autobiografica come “una linea di difesa contro la mancanza di significato“. Per coloro che, a differenza di lei, non possono ricordare tutto, vecchie lettere, diari e fotografie sono un aiuto indispensabile. Tenere un diario, scrivere degli appunti, scattare fotografie sono il miglior espediente che l’essere umano ha per non perdersi via. Un modo anche per ricordarsi di altri che, in maniera più profonda o meno, ci hanno accompagnato per una parte della nostra esistenza. Ricordare è sopravvivere. Ricordare è continuare a vivere. Già Platone nel Fedone sottolineava come la anamnesi, ovvero il ricordo, era il ridestarsi di un sapere già presente nella nostra anima, in altre parole era il segreto della sua immortalità.
Oggi scattare e salvare immagini è così facile che poche persone si preoccupano di stampe su carta, album fotografici o persino fotocamere. Tengono in mano il loro telefono e scattano, sperando di ottenere qualcosa di decente, che poi pubblicano su Facebook, Instagram o altri social media. Ma un rullino fotografico digitale contenente migliaia di immagini non ordinate, non modificate e prive di contesto non è una narrazione intelligibile di una vita. Girare le pagine di un libro fisico è un’esperienza diversa dallo scorrere un dito su uno schermo, e se non conservi i tuoi ricordi su carta, permetti al tuo passato di essere tenuto in ostaggio da un formato digitale potenzialmente obsoleto e a rischio hackeraggio. Non ci sono scorciatoie per la morte, ma al di là di una vita sana, quello che possiamo fare è recuperare ciò che abbiamo perso. Tutti, nel profondo, crediamo di essere immortali. E forse è così. Immaginandoci a molti anni da adesso, circondati da foto, lettere, email, diari, e impegnati a rileggere tutto, a riordinare la nostra vita avanti e indietro, fino alla fine.