Analizzando la filmografia di Michael Mann salta immediatamente all’occhio il profondo amore per lo sport, per la sfida, per la forza degli elementi naturali. Basti pensare ad Ali o a La corsa di Jericho per intuire lo stretto rapporto che il regista di origini russe ha con la competizione. Del resto sappiamo anche che Mann è il regista delle spettacolari riprese, dei particolari in presa diretta affiancati a raffinatissimi set di luce: insomma un maestro della costruzione cinematografica. Con queste premesse si poteva immaginare come sarebbe stato il suo ultimo film dedicato ad Enzo Ferrari, però Mann è riuscito in un modo o nell’altro a spiazzare tutti e a tirar fuori un film importante. Forse non un capolavoro, ma un film destinato a durare nel tempo.
Il film, essendo iscritto alla categoria biopic, racconta un pezzo della biografia di Enzo Ferrari, un pezzo scelto non a caso naturalmente. Infatti, il film si apre con un Enzo Ferrari tra le braccia di una donna in una campagna modenese, fuori dai circuiti cittadini. La donna è naturalmente la sua amante che diventerà in seguito la sua compagna di vita, Lina Lardi, che vive fuori Modena con il piccolo Piero. Quella che sembra una scappatella si rivelerà un amore fondamentale per Enzo Ferrari, in un momento di svolta della sua vita professionale. Il momento ritagliato dal film è quello in cui la società Ferrari (fondata da Enzo Ferrari e sua moglie Laura) sta perdendo guadagni a causa di una bassa produzione e un elevato costo di spesa per le competizioni sportive. In un mondo che va veloce (come potrebbe esser diversamente, del resto) come quello automobilistico, Jaguar e Maserati hanno già sperimentato che le competizioni sportive sono una chiave promozionale eccellente, mentre per Ferrari questa cosa ancora non si è verificata anche a causa di alcuni terribili incedenti mortali. In un contesto di possibile fallimento Ferrari si trova costretto a dover prendere in mano le briglie della società cercando di attrarre capitali che possano risollevare il conto capitale della società. Da questa necessità nasce l’idea di partecipare con cinque macchine alla Millemiglia, ovvero la gara con più visibilità sia in Italia che all’estero. Quindi il momento immortalato da Mann è quello di un Ferrari sulla soglia di due mondi: la piccola società di famiglia e la possibilità di diventare un marchio internazionale. E ancora: scegliere di accettare la realtà di un figlio morto e dedicarsi alle cure di Piero nato dall’unione con la Lardi.
La scelta di questo periodo storico permette a Mann di tagliare su alcuni momenti storici di difficile discussione che invece nel libro Enzo Ferrari: The Man, The Cars, The Races, The Machine di Brock Yates vengono ben descritti. Per esempio, il rapporto ambiguo con il regime fascista e con le donne. Mann riesce a creare un uomo all’antica pur edulcorando alcuni tratti e dandogli una facciata molto più coerente coi nostri tempi. La scelta del momento di transizione di Enzo Ferrari permette di cogliere del protagonista il grande genio imprenditoriale, la grande determinazione professionale ed anche una certa solitudine spirituale, probabilmente caratteristica dei grandi spiriti visionari. La ricostruzione storica è perfetta. Vediamo infatti una Modena di fine anni Cinquanta che si muove tra trattorie dalle pareti di legno e le etichette più famose ancora in font italico. Abiti, case e le fantastiche macchinine in latta creano un paesaggio da sogno che di certo non è passato inosservato all’estero. Una sorte di dolce vita ma molto più reale e popolare, anche se mediata dal grande formalismo di Mann.
Alla presentazione del film a Venezia, abbiamo trovato la polemica di Favino sulla mancanza di attori italiani nel cast di Ferrari. Rispetto alla polemica, Favino ha ragione e torto insieme ad un’analisi approfondita. Se è vero che il film manca di una vera e propria identità, per esempio nessuno parla con accento romagnolo, togliendo un po’ di veridicità al film, dall’altra parte viene difficile immaginare un attore italiano dentro la macchina produttiva del regista. Per quanto il bravissimo Adam Driver non convinca fino in fondo, difficilmente sarebbe potuto essere sostituito vista la sua leggerezza e affidabilità nel ruolo. Ma forse qui giungiamo al punto centrale del film, il vero fulcro. A Michael Mann interessava raccontare le auto di Ferrari e un mondo, quello della trasmissione meccanica, delle bielle e delle leve che scattano facendo rumore. Un mondo in cui sotto il piede era perfettibile un motore che bruciava energia. Le auto scelte nel film sono meravigliose e altrettanto sono le riprese dedicate a loro. Le sfide automobilistiche sono girate con maestrie e naturalezza, il che dona al film una patina di meraviglia per tutti gli appassionati di auto e mondo vintage. Quello di Ferrari che interessa a Michael Mann è soprattutto un mondo meccanico e di stile che non c’è più, un mondo in cui i piloti sono esseri soprannaturali che vivono vite fatte di avventura e scontro con la morte. È interessante notare come il film rimandi ad una famosa frase detta da Ferrari durante un’intervista: “Non posso permettermi le macchine che costruisco“. In questo piccolo pezzo apparentemente di umiltà c’è la grandezza di Ferrari visionario.
Enzo Ferrari era un ingegnere con un sogno di stile (non a caso citava spesso Canova), un’immagine di bellezza meccanica e spirituale che voleva lasciare un segno nel tempo. Un segnale che non si soddisfava nella ricchezza ma nella dedizione alla perfezione stilistica e meccanica. Un mondo, quello meccanico. che non mente a differenza del digitale: all’ingresso della benzina corrisponde uno scoppio, ad un’entrata un’uscita di liquidi, tutto estremamente reale.