Dall’adolescenza vissuta in sella alle moto alla Nazionale Italiana di Vela, sempre in ciabatte, costume e t-shirt. Poi il cambiamento inatteso, improbabile, ma di successo: prima la nautica, poi l’inviata di guerra e, infine, il mondo dei motori, quasi a percorrere un cerchio che va a collimare con i primi anni della sua vita dove, per necessità, affronta quotidianamente le mulattiere per andare a scuola. Irene Saderini è energia, forza, coraggio, onestà. Quell’onestà intellettuale che le permette di aprirsi e di riscoprire una fragilità nascosta dall’apparenza di una vita sempre in movimento, sempre al limite, fatta di adrenalina e post su Instagram. Irene Saderini è il baluardo del giornalismo al femminile che ancora oggi è costretto ad ascoltare battute irriverenti da bar sport e affrontare uno scetticismo di fondo che si scontra con la realtà dei fatti.
Come stai vivendo questo momento? Come hai passato le feste?
Ti risponderò in maniera molto onesta, sto vivendo questa seconda ondata molto male. Non posso vedere la mia famiglia, non l’ho vista nelle vacanze di Natale e… sì, sto male. È strano non poter tornare a casa, vedere i cari, stare in famiglia. Durante la prima ondata c’era anche questa roba qui della novità, parlo per chi non ha avuto persone malate e non ha vissuto quei problemi, dello stare a casa e sperimentare questa situazione. Mi dispiace per me e soprattutto per i miei genitori che ormai hanno una certa età e che stanno vivendo quelli che sono i loro ultimi anni in una situazione così strana e al limite.
Parliamo di qualcosa di più bello: Drive me Crazy, chi tra gli atleti che ti hanno aiutato ti ha sorpreso di più, come persona e come sportivo?
Allora dal punto di vista sportivo nessuno, nel senso che loro sono dei professionisti della prestazione e qualsiasi cosa gli poni di fronte, come obiettivo, come sfida, loro la prendono sul serio, si trasformano e diventano immediatamente competitivi e da quel punto di vista mi aspettavo esattamente quello che ho visto, dei professionisti incredibili. Dal punto di vista personale sono rimasta affascinata positivamente da Marco Aurelio Fontana che non conoscevo personalmente. È raro che quando un atleta lascia la carriera professionale sia felice, che stia bene con se stesso, perché c’è sempre ‘sta fame della competizione che mangia dentro. Invece, mi sono stupita molto perché Marco è contento, sereno, ha una bella famiglia, mi ha insegnato molto. Si vedeva che amava la bici e quello che fa. Super disposto a dare tanto agli altri senza aspettarsi nulla in cambio, nonostante non lo faccia più a livello professionistico e non debba preparare Olimpiadi e quant’altro. Ho visto una persona davvero positiva.
In quale delle discipline ti sei trovata meno a tua agio?
La bici. Assolutamente. Scendere senza freno motore è assurdo, se tocchi il freno ti cappotti, è stato difficile, però, a suo modo bello. Ma, mai più (ride).
Quando nasce la tua passione per la moto?
Io vengo da un paesino molto piccolo, sono cresciuta in campagna ed era tutto mulattiera, e nella mia adolescenza ho iniziato ad andare in moto per necessità. E ci vado da sempre. Per i ragazzi di quella zona era la normalità andare in moto: 13 anni, casco integrale e via.
Domanda marzulliana: come vedrebbe quella Irene tredicenne l’Irene di oggi e viceversa, come Irene oggi ricorda quella ragazzina?
L’Irene ragazzina aveva dei sogni completamente diversi da quelle che sono oggi. Tutte le cose che ho fatto erano cose che non mi interessavano da piccola. L’Irene di oggi ha molta nostalgia. Io vivevo un’altra vita, ero nella Nazionale Italiana di Vela, andavo in barca a vela e ho fatto le campagne Olimpiche, almeno ci ho provato. Mi interessava solo il mare, vivevo in ciabatte, con una t-shirt di ricambio e via. Era un modo molto figo di vivere. Se potessi fare un rewind avrei insistito con quella carriera lì.
Tu hai iniziato a fare il giornalismo nella nautica. Poi il fronte e i motori.
Esatto, ho iniziato facendo prove tecniche in quest’ambito. Poi, mi sono spostata a fare l’inviata di guerra: ho fatto Kabul, la Siria, Iran, Iraq e per lo più Afghanistan. È stato un periodo intenso della mia vita. Quando ho incontrato Ettore Mo ho capito a fondo che cosa significasse fare il reporter. Mi disse: “stai attenta, questo lavoro qua o ti inghiotte o ne prendi le distanze. Scegli bene per tempo cosa devi fare“. Io per i soliti strani casi della vita sono finita a Sky, ad occuparmi di motori. Pensando a quella frase lì, di Ettore, ho capito che aveva perfettamente ragione. Credo che – ma è la mia personale lettura – ci vogliano più palle a non andare a fare il reporter anche se si è intenzionati a farlo, perché pensare in modo arrogante che tanto a te non capita nulla o pensando che non hai nulla da perdere significa che non hai le palle di affrontare la vita. La paura è importante e ne conosco tanti che hanno mollato e hanno fatto bene nonostante la passione che avevano per quel lavoro. Se non te ne frega un cazzo di morire.
Mi interessava solo il mare, vivevo in ciabatte, con una t-shirt di ricambio e via. Era un modo molto figo di vivere. Se potessi fare un rewind avrei insistito con quella carriera lì.
Ti è mai capitato di dover affrontare qualche pregiudizio in quanto donna nel mondo dei motori?
Assolutamente sì, e ti racconto anche un aneddoto. Mi è capitato di guidare la Formula Predator, ho fatto test su test, con la massima umiltà. Insomma, giravo coi tempi degli ultimi, ma a me andava bene, potevo giocarmela per quelle posizioni lì. Sei in macchina e devi fare un feedback: avantreno, giri motore, cambiate, freno. Tutto. Ma non ti prendono sul serio. Non te lo dicono in faccia, ma lo senti, lo percepisci, fanno finta di ascoltarti. La macchina è rimasta accelerata, senza freni. Vado dritta. Paura. Per fortuna che c’erano le gomme, non mi sono fatta nulla, ma grosso spavento. Rientro al box, aprono la macchina e mi dicono “c’era un dispositivo, come fai a non saperlo“, di qui e di là. Comunque, mentre i quattro meccanici stanno richiudendo la macchina vedo che stanno sostituendo il filo dell’acceleratore che era tutto smangiato, rovinato, perché era rimasto incastrato. Non ci ho visto più! Se sbrocchi, però, ti dicono che sei uterina, se stai calma e zitta dicono che non capisci un cazzo. Insomma, va trovata una media.
Mi sono spostata a fare l’inviata di guerra: ho fatto Kabul, la Siria, Iran, Iraq e per lo più Afghanistan. È stato un periodo intenso della mia vita. Quando ho incontrato Ettore Mo ho capito a fondo che cosa significasse fare il reporter. Mi disse: “stai attenta, questo lavoro qua o ti inghiotte o ne prendi le distanze. Scegli bene per tempo cosa devi fare“.
Come vivi il mondo dei social?
Credo ancora, nonostante tutto, che se usati bene possano veicolare messaggi positivi. Il mio approccio vive un contraddittorio: da una parte vorrei dire tutto quello che penso, dall’altra mi ricordo che in tutta la mia vita quando ho detto senza fronzoli quello che volevo non è andata affatto bene. Non sono una che non si espone, ma i social sono un mondo complicato che forse andrebbe vissuto con più spensieratezza.
Ultima domanda: oltre il 2020 cambieresti qualcosa della tua vita?
Cambierei i fidanzati. Quindi tutto a posto (ride).