É un piacere parlare del libro di Claudio Marchiso. É un piacere perché è un libro che stupisce e fa riflettere, che conforta in qualche caso, ma soprattutto perché non è un libro di sport. O almeno non è un libro che parla di esclusivamente di sport e, allora, forse proprio per questo è un libro che parla di come lo sport dovrebbe essere: una palestra di qualità per l’anima e il corpo in grado di portare bellezza, solidarietà e valori positivi anche nel resto della società.
Claudio Marchisio si è distinto tra la marea di suoi colleghi che gareggiano per ostentare forza, successo, charme, per il suo modo discreto ma sincero di interrogarsi sulla realtà. Interrogarsi, non spiegarla e neanche pacificare con qualche frase buona per tutte le stagioni, Marchisio si è posto delle domande (arte socratica sempre difficile in un mondo che non ha tempo per cercare, deve trovare prima di sentire anche il bisogno).
Detto ciò in Il mio terzo tempo, Marchisio inizia il suo racconto da un episodio molto famoso: la morte di 34 persone, tra i quali almeno una decina di bambini, che tentavano di approdare sulle coste siciliane. Come racconta lo stesso Marchisio: “Come spesso mi succede, avevo tante domande e pochissime risposte. Ero triste, disorientato, imbarazzato e arrabbiato, presi il mio smartphone e quasi senza pensare postai la foto che mi aveva dato il pugno allo stomaco“. Questo gesto istintivo proprio pochi giorni prima dell’appuntamento di Champions League costerà uno shit-storm a Marchisio, ma segnerà un passo importante nella sua crescita di uomo e padre (il libro è dedicato con delle bellissime parole ai suoi figli ndr.) che guarda il mondo cercando di chiedersi se sia possibile migliorarne almeno un pezzetto.
Il libro che avete tra le mani arriva come ulteriore tappa di questo percorso personale, e vuole essere semplicemente un tentativo di ricordarci che, qualunque ruolo si occupi nella società, siamo tutti chiamati a (pre)occuparci delle cose del mondo.
Certo le fortune di Marchisio sono tante essendo vincente, dotato di grande classe e bello vero (mentre scrivo mia moglie e le colleghe mi chiedono se il libro sia corredato di foto, rispondo di no a malincuore), tutte caratteristiche che guidano immediatamente la vox populi al tormentone “facile parlare con i soldi, pensa a giocare”. Ma invece è proprio questo il passaggio importante per capire la bellezza delle riflessioni di Claudio Marchisio: non c’è alcun paternalismo (come diceva Gramsci di Manzoni, per esempio) nelle sue riflessioni, nessun buonismo; c’è una riflessione concreta, pratica, efficace. Nel primo capitolo racconta la propria infanzia semplice, non edulcorata, ma con una grande fortuna quella di avere i mezzi sufficienti per poter inseguire un sogno: giocare nella Juventus.
Vuoi la vicinanza tra casa e centro sportivo della squadra italiana più blasonata, vuoi la fortuna di essere osservato a sei anni dalla persona giusta, vuoi (beh ovvio) del talento innato, Marchisio riflette sulla bravura quando non aiutata dalla fortuna. Oltre al fatto che è un piacere leggere Marchisio che cita David Foster Wallace, fa bene al cuore e alla testa sapere che ci sono anche dei giocatori che non si sentono eletti dal signore a tirare calci al pallone.
Marchisio entra, però, in profondità anche nelle dinamiche sportive più nascoste dove troviamo, ad esempio, delle interessanti riflessioni su come si viva e costruisca uno spogliatoio. La frase “merito della squadra” di solito pronunciata dal goleador della serata, spiega Marchisio, non è frutto di una finta umiltà, ma di una regola alla base degli sport di squadra: se nella squadra c’è davvero collaborazione, il singolo riesce ad emergere proprio perché supportato e sostenuto.
Ma è anche ovvio che non poteva mancare ne Il mio terzo tempo un riferimento ad uno dei momenti più equivoci dello sport italiano: la retrocessione della Juventus in Serie B per motivi giudiziari proprio mentre il suo blocco storico (Buffon, Del Piero, Camoranesi, ecc..) vince il mondiale tedesco, anno 2006. Marchisio racconta bene il profilo dei grandi campioni di quella Juventus che umilmente decisero di retrocedere, ma non di abbandonare una maglia, un’idea di calcio, un’idea di sport. Al solito, Marchisio non si schiera tra i buoni e gli illuminati, ma riporta l’interno di quei giorni tristi per lo sport italiano, facendo al contrario emergere proprio la grandezza di alcuni suoi compagni e maestri, su tutti naturalmente Alex Del Piero.
Si possono fare grandi prestazioni, ma solo se si è integri e consapevoli di che cosa sia la leale competizione si può arrivare a essere un leader che dura negli anni, un esempio, un mito. Del Piero, Buffon, Nedvěd lo erano, e come loro tanti di quella squadra che si assicurò la promozione con tre giornate di anticipo nonostante la penalizzazione di inizio stagione. E in cui io ebbi il privilegio di essere quasi sempre titolare.
Non manca una parte altrettanto interessante sull’attualità dell’epidemia del Covid e della sua ricaduta sulle dinamiche scolastiche. La riflessione stuzzicante in cui ci porta Marchisio è sul concetto di competizione, di traguardo, di vittoria. Riflessione che si fa audace e stimolante proprio perché arriva da un campione che militava in una squadra il cui motto è “L’importante è solo vincere“. Se nello sport professionistico è vincere, essere i migliori (quasi) ad ogni costo, nella società e nella scuola i parametri dovrebbero essere altri. Non dovrebbe essere primeggiare l’obiettivo degli alunni a scuola, o andare veloci verso qualche obiettivo, ma cercare dinamiche di responsabilità, socializzazione e cooperazione. Fa specie, sarò molto sincero, leggere queste parole scritte da un ex calciatore, non per i temi e neanche per la sensibilità che porta a queste riflessioni, ma per la qualità e la profondità con cui vengono discusse e argomentate.
La mia domanda però è: la scuola pubblica deve davvero ricalcare questi principi di competitività e di focalizzazione sulla prestazione? Io penso di no, perché la scuola è il più importante strumento di costruzione del futuro che abbiamo e credo non possiamo fondarlo sulla lotta tutti contro tutti.
Il libro negli ultimi capitoli affronta anche i temi sempre più scottanti del razzismo e della discriminazione sessuale negli stadi, anche in questo caso le parole di Marchisio sono pesate e ponderate a lungo e le conclusioni non certo scontate. Il mirare dell’autore in questo pamphlet è quello di portare un nuovo sguardo su cose che sembrano ormai essersi sedimentate nel modo scorretto, consapevoli che la responsabilità dei più fortunati è proprio quella di cercare di cambiare le cose con la propria forza, il proprio amore.
Non è un caso che l’ultimo capitolo del libro si apra con un focus su Michael Jordan e sull’accettazione della sconfitta. Marchisio come tutti i grandi sportivi non ha mai accettato la sconfitta in campo, anche se considerata formativa, e forse è proprio per questa grinta che il ragazzo di Torino non vuole perdere la possibilità di lasciare un pezzo di cambiamento al grigio mondo in cui viviamo.