The-Last-Dance

Non avremmo nulla da invidiare ai Chicago Bulls se…

Avete presente le produzioni di film e serie sportive che stanno andando di più in questo periodo? Per chi è utente Netflix, impossibile non citare “The last dance”, che racconta le vicissitudini di quella fantastica squadra che furono i Chicago Bulls di Michael Jordan nella stagione 1997/98, l’ultima prima dello sfaldamento della franchigia deciso dalla dirigenza del club. Ecco, questa docu-serie è un esempio favoloso di come da in altre parti del mondo si abbia un’altra modalità di racconto legato al mondo dello sport, qualunque esso sia. “The last dance” non è un semplice documentario a metà tra lo storico e lo sportivo, ma è un’operazione che, vista ai giorni nostri, è piuttosto lungimirante: nella stagione 97/98 i Bulls sono stati seguiti giorno dopo giorno da una troupe che ha ripreso momenti più o meno privati della vita del club, sapendo che quello sarebbe stato l’ultimo anno di un’epopea che, definire vincente, è quasi riduttivo. A più di 20 anni di distanza, quei filmati sono diventati oro colato per un colosso come Netflix che ha creato una serie a puntate che sta avendo un successo spaventoso. Ma questo è solo l’ultimo di una serie di esempi che possiamo citare di produzioni straniere che in questi anni sono servite a raccontare lo sport da un punto di vista simile. Un altro caso è quello di Sunderland ‘til I die”, altra serie marchiata Netflix che racconta le vicissitudini del Sunderland, club inglese che nel giro di due anni è piombato dalla Premier League (il campionato più prestigioso al mondo) alla League 1, il corrispondente della nostra Serie C. Una doppia retrocessione che è stata documentata in tutto e per tutto dalle telecamere del colosso americano a cui è stato dato il permesso di entrare e uscire da uffici e spogliatoi anche nei momenti più delicati e pieni di tensione – soprattutto dei tifosi. La domanda sorge spontanea: come mai da noi racconti di questo genere sono praticamente assenti?

Per dare una risposta dobbiamo fare qualche passo indietro, ai primi anni 2000. Perché in quel periodo un tentativo – più o meno riuscito – era stato fatto per raccontare una storia che in breve da favola si trasformò in tragedia (sportiva, sia chiaro). È l’estate del 2001 quando nella bassa padana, per la precisione a Fiorenzuola d’Arda, in provincia di Piacenza, sembra che stia per nascere il nuovo miracolo del calcio italiano. Il Fiorenzuola, la squadra della città, passa sotto il controllo della Global, una società che opera in Sudamerica per portare giovani di quelle latitudini nel calcio italiano ed europeo. Il presidente Alessandro Aleotti  ha grandi progetti e pensa che con il supporto della Global il Fiorenzuola possa presto scalare le gerarchie del calcio italiano e passare in breve tempo dalla C2 in cui si trova, ai massimi livelli del pallone professionistico del nostro Paese. Un sogno che convince un gruppo di giovani calciatori argentini e uruguagi a lasciare la loro terra e le loro case, stimolati dalla presenza di un allenatore che da calciatore è stato campione del mondo e simbolo di una generazione, Mario Kempes, professione bomber argentino. È proprio Kempes l’asso nella manica del presidente e della Global per convincere i giocatori a partire per l’Italia, sperando che questo nome altisonante stuzzichi anche qualche investitore disposto ad alimentare il sogno di provincia. Cosa che, puntualmente, naufraga in mezzo a mille misteri legati a soldi che non arriveranno mai, passaggi di proprietà fatti a metà, stipendi non pagati, promesse – a calciatori e tifosi – mai mantenute e un’avventura che dalle grandi speranze iniziali si spegne nel nulla più totale nel giro di qualche concitata settimana di fine estate del 2001.

Perché citiamo questa storia? Perché è stata raccontata da un docu-film intitolato “Sogni di cuoio” di César Meneghetti ed Elisabetta Pandimiglio che con filmati e interviste dell’epoca ben raccontano il clima schizofrenico e il continuo viaggio sulle montagne russe che calciatori e dirigenti di quella squadra hanno vissuto

Perché citiamo questa storia? Perché è stata raccontata da un docu-film intitolato “Sogni di cuoio” di César Meneghetti ed Elisabetta Pandimiglio che con filmati e interviste dell’epoca ben raccontano il clima schizofrenico e il continuo viaggio sulle montagne russe che calciatori e dirigenti di quella squadra hanno vissuto. È un esempio targato 2004 e questo, probabilmente, è l’esempio più vicino alle produzioni che oggi apprezziamo su Netflix. Il fatto è che “Sogni di cuoio” non è disponibile su nessuna piattaforma di streaming, almeno su quelle più diffuse. Eppure non ha niente di meno rispetto ai racconti che vi abbiamo citato, anzi. Ha anche un fondo di tristezza e di romanzo calcistico amaro che male non fa, pensando a tutte le discussioni di questo periodo su quando e se ricominciare con il calcio giocato.

Al momento se volessimo restare attaccati al mondo Netflix, solo il prodotto realizzato dalla Juventus, “First team: Juventus” è l’unica produzione che riguarda una squadra professionistica italiana ad avvicinarsi alle produzioni del colosso americano. Nel 2018 viene pubblicata questa serie docu-reality in 6 episodi che racconta da vicino le vicende private di alcuni protagonisti del mondo bianconero nella stagione 2017/18, come il capitano Gianluigi Buffon, l’allenatore di allora Massimiliano Allegri e la bandiera del club Alex Del Piero. Tre storie legate dalle vicende a tinte bianconere con anche un focus sulla famiglia Agnelli e il suo rapporto con lo sport e le vittorie. Non un racconto narrativo, quanto informativo su che cos’è il mondo Juventus cercando di aprire all’estero la sua realtà, così da attirare sempre più “followers”. Riassumendola brutalmente: un’operazione commerciale e poco più. Infatti non ha appassionato più di tanto i fedelissimi della squadra che già ben conoscono certe dinamiche legate ai loro beniamini. Poi ci sono quelle produzioni autoriali, come “Bobby Robson, more than a manager“, che raccontano i personaggi che hanno fatto la storia del calcio – quello inglese, in questo caso – in modo più tradizionale, ma facendolo in maniera stramaledettamente bella. Un’ora e mezza per immergersi nel racconto di un personaggio carismatico come Robson, passando attraverso la Uefa vinta alla guida dell’Ipswich Town, i mondiali dell’86 e del ’90 sulla panchina della nazionale inglese, il percorso lusitano-iberico con Mourinho tra Sporting, Porto e Barcellona e gli ultimi anni nella sua Newcastle insieme ad Alan Shearer. Il tutto accompagnato dalla testimonianza diretta dei vari Guardiola, Mourinho, Lineker, Ronaldo Luis Nazario de Lima, Alan Shearer, Terry Butcher e un commovente Paul Gascoigne, con il quale Robson aveva un rapporto più che speciale. È una produzione del 2018 che fa venire davvero le lacrime agli occhi per il suo carico di emotività spinta. Di documentari del genere, su personaggi di questo tipo, se ne potrebbero realizzare a iosa se pensiamo agli allenatori che hanno guidato le squadre italiane. Dai più noti Nereo Rocco a Giovanni Trapattoni, passando per personaggi più folcloristici come Gustavo Giagnoni, Emiliano Mondonico, Gigi Radice, Aldo Scoglio, Manlio Scopigno e Tommaso Maestrelli. Sarebbe bellissimo raccontare le loro vicende con strumenti e chiavi di lettura moderni come accade negli altri Paesi. Potrebbe anche essere un modo per riabilitare il nostro calcio agli occhi del mondo. Solo che servono buone idee e qualche soldino perché anche noi, a livello di materia prima, siamo ricchissimi. Basta sfruttarla e non avremo nulla da invidiare ai Chicago Bulls.

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