baggio mutanti

Roberto Baggio e il calcio dei mutanti

La storia dell’uomo non presenta altro che un passaggio continuo da un grado di civiltà ad un altro, poi all’eccesso di civiltà, e finalmente alla barbarie, e poi da capo.
[Giacomo Leopardi]

Roberto Baggio ha festeggiato i suoi 54 anni. Tutti si sono affrettati a commentare e ad augurare al Raffaello del calcio italiano 100 di questi anni. Una sorta di gesto di cortesia, di atto dovuto per un atleta che in passato ci ha regalato gol che erano vere e proprie opere d’arte. Eppure di Baggio la prima cosa che mi viene in mente è il suo triste declino: lui che andava via dal ritiro del Bologna dopo che Ulivieri aveva deciso di metterlo in panchina, e sempre lui che si allenava da solo a Caldogno nell’estate del 2000 in cerca di una squadra. Baggio, l’ultimo vero fantasista del calcio italiano che si allenava da solo; un’immagine che riassume tanti significati. Ma in particolare dimostra un fenomeno che oggi è sotto gli occhi di tutti: il mutamento antropologico del calcio e più in generale, dello sport. Una sorta di imbarbarimento, nel senso lato del termine, che va di pari passo con quella che è stata negli ultimi anni l’evoluzione della società.

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La delusione dopo la finale di USA ’94

Accanto all’immagine di Baggio che si allena da solo, esiste un’altra immagine emblematica dei nostri tempi ed è quella degli stadi vuoti. Quelle cattedrali del deserto da 70-80mila posti semi abbandonate che ricordano le città saccheggiate dai barbari. Alla fine non resta più nulla. Di quelle gigantesche strutture sorte sull’entusiasmo dei Mondiali del ‘90 non restano che degli scheletri, motivo di imbarazzo per tutti noi. Ne I Barbari Baricco, identifica alcuni tratti distintivi di un mutamento sociale che possiamo traslare tranquillamente nel calcio; i principali sono: un’innovazione tecnologica che rompe i privilegi di una casta, l’estasi commerciale che va ad abitare quell’ingigantimento dei campi da gioco, e il valore della spettacolarità come unico valore intoccabile a discapito di quell’istinto sacrale dei riti e dei gesti che hanno accompagnato il mondo dello sport fino ad inizio millennio.

i barbari zeta

L’innovazione tecnologica

Il primo tema è trasversale a tutti gli ambiti della nostra società. La scienza è alla base del nostro quotidiano, noi siamo una società tecnologica. Senza scomodare Heidegger che vedeva nella Tecnica un modello di conoscenza e la fine dell’era umanistica, in cui l’uomo non è più soggetto della storia ma oggetto da manipolare e utilizzare, lo strumento tecnologico oggi è diventato qualcosa di più rilevante rispetto all’uomo stesso. Ed in questo contesto ecco come il calciatore diventa performante (termine del vocabolario dei mutanti) nella misura in cui il suo corpo diventa lo strumento. Non il suo genio, non la sua creatività, non la sua grinta né la sua intelligenza, il suo corpo, ovvero la sua prestanza fisica. In un’epoca in cui la partita della domenica viene triplicata nell’arco della settimana al punto che si arriva a giocare ogni due giorni, la prestanza fisica diventa il principale parametro di scelta di un calciatore. A questo fanno seguito l’evoluzione delle sessioni di allenamento, l’attenzione maniacale alla dieta e allo stile di vita dei giocatori. Basta ricordare come pochi mesi fa Pep Guardiola, minuzioso studioso dei dati di ogni singolo allenamento, abbia indetto la gara #hackmcfc per trovare un team di scienziati che dessero vita ad un algoritmo che gli permettesse di valorizzare ed adattare le sue teorie tecniche sui giocatori.

In un’epoca in cui la partita della domenica viene triplicata nell’arco della settimana al punto che si arriva a giocare ogni due giorni, la prestanza fisica diventa il principale parametro di scelta di un calciatore.

O basta guardare anche in terra nostrana e vedere quello che Conte insieme al preparatore atletico Pintus stanno facendo alla Pinetina. Se una volta potevamo divertirci davanti alla buffonate di personaggi come Hubner che fumava (pare) anche durante l’intervallo, ora tutto questo è impensabile e fuori da ogni logica. Ma l’evoluzione tecnologica non si misura solo attraverso le metodologie di allenamento, ma anche con gli “attrezzi” del mestiere. Pensate agli scarpini la cui evoluzione tecnica è stata sbalordiva così come le divise e i palloni. Niente è più lasciato al caso. Tutto è studiato nei minimi particolari al punto che la scelta stessa dei giocatori non è più solo ad opera dell’intuito degli osservatori che bazzicano i campi di qualsiasi periferia del mondo, ma è coadiuvata da specifici software che analizzano i dati delle perfomance di tutti i calciatori in circolazione. Siamo nell’ambito di quella che Calvino ne le Lezioni americane chiamava “Esattezza”: la necessità di eliminare il vago e approssimativo dal nostro mondo.

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Italo Calvino

L’estasi commerciale

Tutte le conseguenze di questo mutamento nascono dalla trasformazione delle società sportive in aziende. Un passaggio fondamentale perché tutto assume una doppia valenza, sportiva ed economica. Il periodo dei presidenti-mecenati che come imperatori romani o principi rinascimentali elargivano denaro a “fondo perduto” è bello che andato. Come dimenticare il “caso Lentini”, calciatore che viene ricordato solo per la cifra folle per l’epoca (siamo nel 1992) di 65 miliardi di lire con cui il Milano lo strappò al Torino. Una cifra che scaturì non poche polemiche e nata solo per una sfida tra Agnelli e Berlusconi. Screzi tra due proprietari che nel calcio vedevano solo uno strumento di affermazione personale. A loro si sono sostituiti fondi d’investimento, colossi internazionali pronti ad usare lo sport come mero strumento per l’entrata in un nuovo mercato. Non sono più previsti investimenti non programmati, nessuna spesa folle per un giocatore, nata da un colpo di fulmine durante il calcio estivo; tutto ora è programmato e segue uno schema il cui obiettivo non è vincere ma fatturare, in un circolo vizioso in cui chi più fattura più può spendere. Ed allora eccola la corsa a trasformare tutto in una fonte di ricavi: dalle magliette ai calzoncini per arrivare ai centri sportivi e agli stadi. Tutto è sponsorizzato. Lo stadio sembra la panacea di tutti i mali. Pare che senza uno stadio una squadra sia incompleta perché con uno stadio i ricavi aumentano mediamente del 20% e questo può fare la differenza. Ma la trasformazione più penosa che è passata inosservata è quella del tifoso: da semplice appassionato ora è diventato un cliente.

Tifare significa innanzitutto pagare.

Tifare significa innanzitutto pagare. Si paga tutto, spesso anche cifre spropositate. Lo stadio che prima strizzava l’occhio ad una piazza di paese in cui ci si incontrava, ognuno con i propri amuleti ed usanze, ora è recintato da tornelli e videocamere. È vietato portare qualsiasi cosa possa alludere ad una potenziale arma – una bottiglietta di plastica con il tappo è ritenuto un oggetto pericoloso. Se si vuole bere non bisogna portare nulla da casa, ma comprarla all’interno dello stadio. Il tifoso che si limita a guardare la partita sul suo seggiolino è uno spreco per il gotha del calcio; deve poter comprare da mangiare e da bere, deve acquistare il biglietto del museo della propria squadra che si trova proprio lì, accanto all’ingresso, e magari tra una visita e l’altra andare nello store e comprare una sciarpa o qualsiasi altro oggetto di merchandising che certifichi il suo tifo. Se non cantassero sempre durante i 90’ probabilmente si farebbe anche fatica a distinguere gli ultras dal resto della platea ora che sono privi di tamburi e striscioni che da sempre rappresentano il loro lato migliore. Una cultura nazional-popolare che sta svanendo lentamente di fronte ad una società industriale avanzata che vede nella crescita di fatturato il suo unico scopo. È la mercificazione della cultura di Marcuse, in cui la sua forza sovversiva, il suo carattere di opposizione, di sfida e di difficile controllo perde vigore. Per usare le parole del filosofo tedesco: «la realtà supera la cultura».

inter china
La sede commerciale dell’Inter a Shangai

Il valore della spettacolarità

Se confrontaste una partita di venti-trent’anni fa con una qualsiasi dei giorni nostri probabilmente pensereste che si tratti di due sport diversi. Le partite di oggi si giocano ad un ritmo molto più veloce, caratterizzate da cambi di gioco repentini e da tattiche che nella maggior parte dei casi favoriscono un gioco offensivo, più propenso allo spettacolo. Ma che cos’è lo spettacolo? Viene dal latino spectare che significa guardare. In sostanza, il calcio come ogni altra forma di sport esiste solo se guardato, se ha un pubblico, perché, per usare un’espressione fin troppo abusata, il calcio è dei tifosi. Ripescando dall’etimologia del termine, tifoso viene da tifo e si riferisce a “chiunque abbia un quadro clinico osservabile in diverse sindromi morbose per lo più di natura infettiva, caratterizzato da febbre elevata, offuscamento della coscienza, sempre più o meno profondo, adinamia, prostrazione, delirio, disturbi sensoriali” [Treccani]. In senso più ampio il tifoso è chiunque manifesti un atteggiamento fanatico, appassionato verso qualcosa. È chiaro che un tifoso seguirebbe la sua squadra anche se non dovesse offrire uno spettacolo, anche se non dovesse fare nemmeno un tiro in porta; resterebbe deluso, certo, protesterebbe, ma sicuramente sarebbe lì ad aspettare la prossima partita.

Per chi è lo spettacolo? È per tutti quelli che tifosi non sono. Quelli a cui si vendono le partite per incrementare un giro di affari che altrimenti sarebbe in calo o perlomeno in una situazione stagnante.

Questo perché il tifoso è un bambino, animato da una sofisticata ed infantile forma di speranza che sotto tutte le delusioni continua a suggerirgli che la prossima volta andrà meglio. In fondo, questa è l’essenza dello sport ed è una delle cose più belle del calcio: portarci alla nostra infanzia, riconnetterci con i nostri ricordi in cui giocavamo per strada con gli zaini a fare da pali. Quindi di nuovo: per chi è lo spettacolo? È per tutti quelli che tifosi non sono. Quelli a cui si vendono le partite per incrementare un giro di affari che altrimenti sarebbe in calo o perlomeno in una situazione stagnante. Lo spettacolo non è più il come, ma il fine. Estremizzando si potrebbe dire che lo spettacolo è più importante della vittoria o della sconfitta. Al di là del bene e del male. Un attacco neanche tanto mascherato al tabernacolo della nostra religione: da fanatici ci stiamo trasformando in atei. Ora quello che vogliamo più di ogni cosa quando guardiamo una partita è di non annoiarci. Vogliamo giocatori che corrano prima di pensare. Non c’è tempo per la riflessione e per la pausa e questo lo si vede anche dai calendari frenetici in cui ogni giorno della settimana c’è una partita, virus permettendo.

Per questo pensando a Roberto Baggio in panchina non si può non pensare a come il calcio è cambiato, a come noi siamo cambiati. Tutto ci scorre così in fretta che abbiamo perso il gusto dell’attesa. È finita l’epoca dei flanuer, quei gentiluomini in grado di godersi il più possibile i posti che scoprivano senza troppa ansia né fretta, coloro in grado, come Baggio, di fare una giocata da fermi, con la freddezza e la lentezza di chi celebra un rito sacro.

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