Wahat al-Salam/Neve Shalom

Sotto il peso della guerra: la lotta per la convivenza a Wahat al-Salam/Neve Shalom

Wahat al-Salam/Neve Shalom, che in arabo ed ebraico significa “Oasi di Pace”, fu fondata da Bruno Hussar, un ebreo di origine egiziana fuggito dall’invasione nazista della Francia e in seguito divenuto prete domenicano. Intorno al 1970, ottenne in in prestito da un monastero trappista un grande appezzamento di terra per avviare un esperimento di non militarismo e pluralismo religioso nel cuore di Israele, a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv. Era l’epoca dei gruppi di incontro, raduni basati sulla convinzione del potere del dialogo, e Hussar immaginava Wahat al-Salam/Neve Shalom come un incontro permanente.

Per molto tempo il villaggio ha rispettato il suo nome: è stato un luogo dove ebrei e palestinesi hanno vissuto in armonia. Molte persone si sono trasferite qui già dalla prima Intifada perché Wahat al-Salam/Neve Shalom era, per gli ebrei pacifisti e soprattutto per i palestinesi, un luogo dove le correnti estremiste non attecchivano e si viveva con un senso di massimo rispetto e comprensione reciproca. Almeno fino al 7 ottobre. L’attacco di Hamas ha creato un divario apparentemente incolmabile tra i residenti palestinesi della comunità e alcuni loro vicini ebrei. Questi ultimi volevano che i palestinesi denunciassero Hamas e i suoi omicidi; i palestinesi sentivano che alcuni ebrei erano indifferenti alla devastazione di Gaza. Queste tensioni erano insolite. All’inizio, il villaggio ha tenuto diverse riunioni comunitarie per affrontare il tema, ma i residenti palestinesi parlavano a malapena. Altrove in Israele, i cittadini palestinesi hanno dovuto affrontare arresti, licenziamenti e violenze di massa per aver espresso solidarietà alla popolazione di Gaza. Ma per i palestinesi del villaggio, come affermato da un membro della School for Peace, “non è la paura della polizia, è la paura di sentire le reazioni delle persone che non sono così compassionevoli come vorresti che fossero. È capire chi sono i tuoi partner“. Così, nel villaggio del dialogo, metà della popolazione è rimasta senza parole, e alle riunioni comunitarie ben presto si sono preferiti dei circoli di lutto, non gruppi di discussione ma gruppi di dolore, in cui le persone che avevano subito una perdita sono state invitate a parlare. Un medico palestinese ha raccontato di aver perso diversi colleghi. Altri palestinesi hanno parlato di persone care uccise a Gaza e di Gaza stessa, delle estati che avevano trascorso lì da bambini, dei luoghi che avevano conosciuto così intimamente, ora scomparsi. Un residente palestinese che lavora per una grande azienda israeliana ha parlato di una collega palestinese che aveva perso dei familiari stretti a Gaza e, contrariamente alla prassi comune, non aveva ricevuto alcun riconoscimento dal suo datore di lavoro.

Wahat al-Salam/Neve Shalom

Secondo diversi resoconti, Hussar avviò Wahat al-Salam/Neve Shalom in un camper o in un container. I suoi primi compagni erano due donne cattoliche e un gruppo di giovani europei. Ci volle più di un decennio per assemblare il nucleo iniziale del villaggio, con un numero uguale di famiglie ebree e arabe. Questi primi residenti avevano visto i loro coetanei uccisi nella guerra dello Yom Kippur nel 1973. Per loro non esisteva uno status quo consolidato: i confini si stavano spostando (l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza non avrebbe mai dovuto essere indefinita) e l’unica costante era la guerra. La missione di Wahat al-Salam/Neve Shalom era quella di sovvertire questa convinzione, costruendo un modello in miniatura di un futuro in cui arabi ed ebrei condividono una terra e la governano congiuntamente: una coabitazione, non una semplice coesistenza. Persino la scuola del villaggio, dall’asilo alla sesta elementare, era ed è tuttora bilingue, con uguali ore di lezione in arabo ed ebraico.

Eldad Joffe, l’attuale sindaco, sentì parlare per la prima volta della comunità quando era studente all’Università Ebraica di Gerusalemme, alla fine degli anni Settanta. Nel 2000, lui e sua moglie parteciparono a un ritiro di meditazione a Wahat al-Salam/Neve Shalom e ne rimasero affascinati. Il suo primo giorno come sindaco avrebbe dovuto essere l’8 ottobre 2023, ma il 7 ottobre era già operativo. Joffe convocò rapidamente una riunione del consiglio del villaggio per gestire le questioni pratiche: chiusero il cancello all’ingresso del villaggio, esaminarono i piani per ripararsi in caso di bombardamenti e valutarono le risorse per le forniture di acqua ed elettricità in caso di emergenza. Le autorità statali distribuirono fucili d’assalto ai civili nelle comunità di tutto il Paese. In Israele, il possesso di armi è in gran parte limitato alle persone che hanno prestato servizio nell’esercito. Gli ebrei, ad eccezione degli ultra-ortodossi, sono soggetti al servizio militare obbligatorio, così come le minoranze druse e circasse. Al contrario, i cittadini palestinesi di Israele, se desiderano prestare servizio, devono fare volontariato. Per quanto ne sappia chiunque nel villaggio, nessuno dei palestinesi che vivono a Wahat al-Salam/Neve Shalom ha prestato servizio nelle Forze di difesa israeliane. Ciò significa che le armi inviate nel villaggio, erano nelle mani solo degli ebrei. Ironia della sorta, per la comunità araba evitare di vivere fianco a fianco con ebrei armati era esattamente il motivo che li aveva spinti a trasferirsi a Wahat al-Salam/Neve Shalom.

Il sistema di autogoverno del villaggio può essere lento. Le questioni della vita comunitaria, come le pratiche di impiego o l’approvazione di nuove costruzioni, vengono risolte in riunioni di tutta la comunità. Questo processo è progettato per costruire un modello di cooperazione funzionante, caso per caso, idea per idea, non per gestire emergenze esistenziali. Il cancello del villaggio è rimasto chiuso per sei settimane e ci sono voluti alcuni mesi prima che il villaggio decidesse di restituire le armi ricevute.

Prima del 7 ottobre, tutti nel villaggio sapevano cosa facessero gli altri; sembrava che tutto venisse discusso in una chat di gruppo WhatsApp. Nella primavera del 2024, non era più così. Neriya Mark ha raccontato di una residente palestinese che, a un mese dall’inizio della guerra, ha perso quaranta membri della sua famiglia a Gaza, ma non ha mai condiviso il suo dolore con i suoi vicini. All’altro estremo, gli ebrei di Wahat al-Salam/Neve Shalom che si sono presentati per il servizio militare non hanno condiviso questa loro scelta nella chat. Gli attivisti palestinesi che hanno trascorso le loro giornate documentando l’assalto alla città di Jenin, in Cisgiordania, non hanno parlato mai apertamente del loro lavoro. Pochi mesi fa, il villaggio ha ospitato la prima assemblea comunitaria dall’inizio della guerra. Le persone si erano disabituate al rito del processo decisionale collettivo e alla fine hanno deciso di non fare nulla: non costruiranno nuovi alloggi per far crescere la comunità, non eleggeranno un comitato per discutere di come risolvere le tensioni interne, non discuteranno apertamente delle tensioni. La brutalità della guerra sembra aver spezzato anche qui l’ultimo tentativo per una coesistenza pacifica e ugualitaria.

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