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Everest, lo scioglimento dei ghiacciai e il suo macabro segreto

Nel cuore imponente dell’Himalaya, l’Everest regna con la sua maestosità glaciale, ma anche con un’ombra di tragedia che il cambiamento climatico ha reso sempre più evidente. I suoi ghiacciai, una volta maestosi e impenetrabili, si stanno lentamente ritirando, svelando un passato raccapricciante di sfide e sacrifici umani. Sul versante nord della montagna, dove la neve e il ghiaccio si sciolgono alla vista implacabile del sole, si stagliano ora le sagome dei cadaveri di alpinisti scomparsi nel corso dei decenni. Le loro forme scheletriche, intrappolate per anni nelle gelide prigioni dei crepacci, emergono come testimoni silenziosi delle sfide estreme e delle ambizioni umane che la vetta del mondo ha scatenato.

Quest’anno, un gruppo di scalatori ha intrapreso una missione non solo di conquista o di purificazione dai rifiuti, ma di ritorno al mondo dei resti dimenticati. Affrontando rischi mortali, hanno recuperato cinque corpi congelati, tra cui uno ridotto allo scheletro, portandoli giù verso la pianura nepalese. A Katmandu, due di essi sono stati sottoposti a esami approfonditi per identificarli, mentre gli altri potrebbero essere destinati a una cremazione rispettosa, senza nome ma non dimenticati.

Questa non è solo una missione di recupero fisico, ma anche una battaglia contro il tempo e gli elementi. Il riscaldamento globale ha accelerato il processo di scioglimento dei ghiacci, rendendo sempre più visibili i resti dei caduti. Aditya Karki, maggiore dell’esercito nepalese, guida un team coraggioso di soldati e alpinisti in questa impresa proibitiva, dove ogni passo è un rischio e ogni corpo ritrovato è un grido silenzioso di un passato ormai perduto. Più di trecento anime hanno trovato la morte sulle pendici dell’Everest dall’inizio delle spedizioni, lasciando dietro di sé non solo corpi ma anche pezzi di attrezzatura colorata che ora fungono da macabri punti di riferimento lungo il percorso per i vivi. Nomi come “Stivali verdi” o “Bella addormentata” sono diventati sinonimi di storie interrotte, di ambizioni spezzate dall’inclemenza della montagna e dalla crudeltà della natura stessa.

La “zona della morte”, oltre i 7.600 metri, è un luogo dove l’ossigeno è scarso e il rischio di mal di montagna acuto è elevato. Qui, uno sforzo titanico ha portato a liberare corpi congelati dal ghiaccio, operazione resa ancora più ardua dal peso e dalla fragilità dei resti. Ogni corpo recuperato rappresenta una sfida non solo fisica ma anche etica, poiché la comunità alpinistica discute il valore di disturbare il riposo eterno per portare giù i cadaveri.

Nel mezzo di questa epopea di recupero, sorge una domanda cruciale: fino a quando sarà possibile effettuare questi recuperi? Le montagne, custodi millenari di segreti e misteri, stanno rivelando i loro tesori macabri con una sempre maggiore insistenza. Ma mentre la storia dell’alpinismo e i suoi miti si intrecciano con le ossa ritrovate, c’è un’urgente necessità di bilanciare il rispetto per i morti con la preservazione di questi ambienti così remoti e incontaminati. Così, mentre l’Everest continua a sfidare e affascinare gli umani con la sua grandezza, il suo lato oscuro si manifesta sempre più chiaramente. I cadaveri degli alpinisti morti emergono come moniti silenziosi, invitando a riflettere sul costo umano dell’ambizione e sulla fragile bellezza di queste terre alte, ora minacciate dal cambiamento climatico e dal passaggio implacabile del tempo.

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