Roman von Ungern-Sternberg

Ossessione Ungern

All’ingresso della yurta fui colpito dalla vista di una pozza di sangue che il suolo non aveva ancora avuto il tempo di assorbire, un segno di cattivo augurio, eloquente testimonianza del destino di colui che m’aveva preceduto.

Bestie, uomini, dei. Il mistero del re del mondo – Ferdynand A. Ossendowski

Nel cuore della notte dopo una fuga di migliaia di chilometri, lo scrittore e attivista politico Ferdynand Ossendowski arriva finalmente nella mistica Urga. L’aria rarefatta assorbe l’odore del sangue. Nella semioscurità che avvolge il percorso, e sembra inghiottire in silenzio il salmodiare degli sciamani e spiare ogni loro respiro, si ode solo il lieve rumore del passaggio del vento notturno che, a ogni folata, gli porta l’odore del sangue e dell’incenso dei bracieri. Le voci del nuovo padrone di Urga, il Mahakala, il Grande Oscuro, gli sono note. Vuole incontrare quel soldato ribelle, che tutti in Russia hanno soprannominato il “barone pazzo”, il generale Roman von Ungern-Sternberg.

Ossendowski è ora al cospetto di quel condottiero i cui occhi piccoli e gelidi non tradiscono la fama del suo nome. Guizzi di follia si accendono e spengono tra le sue pupille. Il suo sguardo, ossessionato e famelico, si posa su due spie comuniste. In quello spazio liminale, il barone ordina senza battere ciglio di uccidere a bastonate quei due malcapitati. Poi, come in preda ad un’esaltazione criminale, sale sulla sua Fiat rossa, che nessuno sa come sia giunta fino in Mongolia, e sparisce nel buio della notte, gridando al suo chauffeur: “Più veloce! Più veloce“.

Roman von Ungern-Sternberg

Nato a Graz il 10 gennaio del 1886, il barone Ungern era membro di una delle più antiche famiglie tedesche del Baltico, la cui genealogia risaliva fino a Batu Khan, il fondatore dell’Orda d’Oro. Crebbe a Reval (l’attuale Tallin), per poi formarsi nei lontani confini orientali dell’Impero russo. Laggiù, tra monti inesplorati e valli inaccessibili, boschi selvaggi e tribù misteriose, credenze sciamane e antiche leggende, abbracciò con sempre più convinzione il buddhismo, un misticismo influenzato da spinte scioviniste e credenze cinesi e mongole.

Lì nella Transbajkalia quelle sue manie sadiche ed esoteriche, che lo avevano allontanato da San Pietroburgo, trovarono nuova linfa. Allo scoppio della Prima guerra mondiale servì sul fronte orientale, in Galizia, contro gli austro-ungarici e si guadagnò la reputazione di ufficiale estremamente coraggioso ma spericolato e instabile. Venne ferito quattro volte e decorato con la Croce dell’Ordine di San Giorgio, con la croce dell’Ordine di San Vladimiro e con quella dell’Ordine di San Stanislao. Tuttavia, per avere aggredito due ufficiali commilitoni, fu mandato, alla fine del 1916, sul fronte caucasico, a combattere contro l’Impero ottomano. Qui fece la conoscenza dell’atamano Grigorij Semyonov.

Febbraio, 1917. Rivoluzione. A Pietrogrado il nuovo governo provvisorio, retto dal partito dei Cadetti, dai menscevichi liberali e borghesi e da alcuni elementi social-rivoluzionari inviò il barone in Estremo Oriente, sotto il comando di Semënov. Nelle steppe quella strana coppia oppose fiera resistenza alla macchina bellica di Trockij, tra le file di quel caleidoscopio di divise che era l’Armata Bianca. In quell’eterogeneità ben presto vi furono divisioni, complotti e scissioni. Il duo Unger-Semënov decise che era il tempo di creare una propria contro-rivoluzione. Sovvenzionati dai giapponesi che altro non speravano di aggiungere caos nel caos in terre pronte alla conquista, il barone formò la Divisione Asiatica di Cavalleria. Mongoli, buriati, russi, cosacchi, caucasici, tibetani, coreani, giapponesi e cinesi, tutti insieme in quell’intruglio di esaltazione e ferocia. Un tripudio di pacchiana malevolenza sincretica. A differenza di Semënov, Urgen progettava un sovvertimento di tutti quei valori che avevano spinto alla Rivoluzione a favore di un’ideologia personale. Esaltato dal misticismo buddhista, sognava un mondo dove lo spirito vinceva sulla materia, dove il divino regnava incontrastato in una gerarchia celeste immutata e immutabile. Quell’accozzaglia di anime dannate, belluine, interessate alla gloria e alle ricchezze dei saccheggi, psicopatici assetati di sangue e soldati di professione, reazionari della prima e dell’ultim’ora, veterani e cadetti, cocainomani, perennemente ubriachi seguiva quel loro signore non più come si segue un generale, ma come si scorta un nume. Il loro addestramento era basato sulla teoria degli opposti tantrici. Venivano somministrate quantità pantagrueliche di vodka e droghe durante la notte. Al sorgere del sole chi non aveva assimilato il tutto e non si presentava pronto per la battaglia veniva fucilato. Bianchi o rossi, a quel punto non faceva più differenza. Assaltavano carovane e treni di entrambi gli schieramenti. La Transbajkalia divenne la sua fortezza e centro di tortura e processi sommari contro chiunque era sospettato di essere un suo nemico. Poi, dopo la totale débâcle dei bianchi, Ungern decise di dirigersi verso un’altra terra, un altro mondo, dove portare alla luce un nuovo ordine mondiale, creato nell’attesa del risveglio del Re del Mondo dalle profondità di Agarthi.

Roman von Ungern-Sternberg

1921. Urga, il suo capolavoro. Nella profondità della Mongolia orientale, con la benedizione di Bogd Khan, legittimo sovrano, disegnò azioni di guerriglia contro l’esercito cinese che aveva occupato Urga, la capitale. Nel primo tentativo di conquistare la città, centinaia di indemoniati con le lame sguainate e i coltelli tra i denti, spinti da una macabra musica di flauti di osso e tamburi di bronzo, vennero trucidati. Nello sconforto dell’accampamento dell’orda barbarica di Ungern, l’esaltazione abdicò per il terrore. Chi trasgrediva, disobbediva o deludeva il tiranno era punito con ferocia. Chiunque veniva sorpreso ubriaco finiva i suoi giorni nudo come un verme nella neve, sull’attenti, fino all’ipotermia. Nell’inverno mongolo prendere la città era diventata questione di vita o di morte. Ed è così che il genio spinto dalla necessità trovò il lampo della vittoria. Il 4 febbraio quella brigata di non-morti accese centinaia di fuochi sulle colline che circondavano la capitale, per trarre in inganno il nemico. Gli assediati ci cascarono: i falò nella gelida notte d’inverno sembravano i bivacchi di un esercito dieci volte più grande di quello che era in realtà. Gli ungerniani partirono all’assalto di avversari numerosi ma terrorizzati e vinsero. Roman Fëdorovič von Ungern-Sternberg trasportato in trionfo insieme al reinsediato Bogd Khan venne nominato principe Qing-Wáng, con il titolo di Khan. Si convinse sempre più di essere una sorta di messia per la restaurazione di Agarthi, pronto a liberare il mondo dalla sua corruzione materialista. Il suo sogno di creare un regno teocratico lamista non aveva limiti, ma solo orizzonti.

Il primo, la Siberia. Era caparbiamente pronto a riconquistare i territori che i bolscevichi avevano usurpato, ma non potè nulla contro la ben organizzata struttura bellica dei rossi. Così indirizzò i suoi sforzi a nord est, volendo conquistare Ulan-Ude, ma le fatiche anche qui furono inutili. La sua mente ormai era sempre più distaccata dalla realtà. I suoi uomini stentavano a seguirne le logiche. Circondato da sguardi sempre più sospettosi, reagiva picchiando e veemendo. Scavato in volto e con lo sguardo rabbioso, si aggirava tra i soldati con il tashur alla mano pronto a picchiare. Stremati, umiliati, affamati, cenciosi e disillusi, gli uomini, che lo avevano seguito fino ai confini del mondo, si ribellarono. Grida di valchirie e spari, caos nella notte. Nel buio Ungern riuscì a fuggire in sella al suo destriero Macha, lui si sempre fedele, e sprofondò nelle tenebre. Terminò la sua calvacata una notte di agosto del 1921. Braccato, venne catturato da alcune milizie mongole, volontari dell’esercito bolscevico. Venne fucilato il 15 settembre.

Prima di incontrare il barone, un monaco indovino predisse ad Ossendowski che avrebbe trovato la morte esattamente dieci giorni dopo aver incontrato un uomo di nome Ungern. Ma passati i giorni ad Ossendowski non accadde nulla. Pura illusione? Cialtroneria di un improvvisato indovino? Alla vigilia del Natale del 1944, però, in una Varsavia devastata dalla furia nazista, il vecchio e malato Ossendowski ricevette una strana visita. Era un ufficiale delle SS che si faceva chiamare Dollerdt. L’ospite si trattenne per un po’ fino a svelare al pover uomo il suo vero nome: Ungern-Sternberg; era il pronipote del barone Unger. Non sappiamo cosa si dissero. Quello che sappiamo è che dieci giorni dopo, il 3 gennaio 1945, Ossendowski morì tra le macerie della città.

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