Elliott Erwitt è stato il fotografo dell’assurdo. Difficile trovare qualcuno che più di lui abbia raccontato con la stessa sensibilità e semplicità quei momenti inusuali e irrazionali che intralciano di tanto in tanto la nostra quotidianità. Nel corso di una carriera straordinariamente varia e peripatetica durata più di 70 anni, la sua macchina fotografica ha raccolto un intero panorama di immagini che messe insieme raccontano più di un’epoca. La lacrima di Jacqueline Kennedy incagliata nel velo scuro della donna durante i funerali del marito richiama il sorriso seducente di Marilyn Monroe, in una foto scattata quasi per caso; il sorriso del soldato di colore durante un’esercitazione nel 1951 in piena segregazione razziale ci porta direttamente a quella di un bambino nero che sorridendo si punta una pistola giocattolo alla testa; e poi i cani con le loro buffe espressioni fungono da perfetto contraltare alla pomposità e alla ricercata compostezza dei loro padroni.
Come ha ricordato l’agenzia Magnum, di cui divenne per qualche anno presidente, la sua cifra stilistica è stata sempre caratterizzata dalla “dedizione alla ricerca dei momenti più assurdi e affascinanti della vita“.
Girovago fin dall’infanzia (i suoi genitori erano ebrei, scappati prima dalla Russia dopo la Rivoluzione del 1917 e poi dall’Europa fascista nel 1939), ha raccontato il lato serio e quello ingenuo del mondo, ma più di tutto ha raccontato New York, l’Upper West Side dove ha vissuto per 60 anni.
L’umorismo intrinseco nelle sue immagini non è mai scontato o forzato; piuttosto, emerge in modo spontaneo dalla sua capacità di cogliere l’assurdità e la bellezza della vita di tutti i giorni. La composizione delle sue fotografie è tale da creare immagini che narrano storie senza bisogno di parole. La sua abilità nel catturare momenti fugaci, spesso con un taglio preciso e una prospettiva unica, ha contribuito a creare narrazioni visive complesse. Ogni fotografia di Erwitt sembra raccontare una storia, invitando gli spettatori a immaginare il contesto e a creare legami emotivi con i personaggi ritratti. E non è un caso che per diversi anni Erwitt si sia dedicato al cinema: c’è in ogni sua composizione un punto di vista cinematografico, un’improvvisazione che sembra voluta ma che magicamente non lo è. La foto della coppia ripresa dallo specchietto laterale di un’auto, quella che mostra Robert e Mary Frank ballare in cucina, così come tutta la mostra Family of Man del 1955 hanno creato un immaginario di intimità che continua ancora oggi a stupirci. Un’intimità non sempre gentile, ma che a volte può mostrarsi tragica e paralizzante, come racconta la foto che ritrae la madre di Robert Capa che abbraccia in lacrime la lapide del figlio. Momenti autentici e veri che enfatizzano l’umanità dietro ogni scena. Attraverso il suo obiettivo, Erwitt è riuscito a rendere universali le esperienze umane.
E poi ci sono i cani, a cui ha dedicato ben 4 album, la sua più fruttuosa fonte di conoscenza dell’umanità. Nel suo libro fotografico Dog Dogs, pubblicato nel 1998, ha osservato: “Non conosco nessun altro animale più vicino a noi per qualità di cuore, sentimento e lealtà“. Spesso li abbaiava di sorpresa per vedere le loro espressioni. E, pensandoci, subito ci ritornano in mente gli scherzi che facevamo da bambini, e senza che ce ne accorgiamo un principio di sorriso compare sul nostro volto. Ecco, questo era Elliott Erwitt.