33 anni. Una vita per molti, un ricordo per altri. Una volta Heidegger disse: “Ciò che ci si presenta come naturale non è che l’abitudine d’una lunga abitudine che ha dimenticato il disabituale da cui deriva. Quel disabituale ha tuttavia, un giorno, còlto l’uomo di sorpresa come qualcosa di straordinario, ed ha riempito il pensiero di meraviglia“. Eccolo quel giorno. Ecco qui Napoli, una squadra che più di tutte rappresenta una città, un popolo. I napoletani hanno atteso più di trent’anni per rivivire l’emozione di uno scudetto; negli ultimi 10 hanno assaporato per 4 volte la possibilità di gioire, per poi finire secondi. Colpa loro e colpa di altri, ma ora finalmente possono gridarlo: “Napoli è campione d’Italia!“.
Ed è giusto che questo premio sia arrivato; anzi doveva arrivare molto prima. Anche perché, come scrive Mimmo Carratelli, a Napoli il calcio esula dalla sfera puramente sportiva, “sollecita un tipo di partecipazione che non è solo complemento allo spettacolo, ma ne diventa molto spesso protagonista“. C’è un aneddoto di Yaya Touré che ben racconta lo spettacolo e lo spirito viscerale che unisce la squadra alla città:
La mattina andammo a fare riscaldamento al San Paolo, Carlos (Tevez) mi parlava di questo stadio, ma io che ho giocato nel Barça mi dicevo, che sarà mai. Eppure quando misi piede su quel campo sentii un qualcosa di magico, di diverso. La sera quando ci fu l’inno della Champions, vedendo ottantamila persone fischiarci mi resi conto in che guaio ci eravamo messi… Qualche partita importante nella mia carriera l’ho giocata, ma quando sentii quell’urlo fu la prima volta che mi tremarono le gambe. Bene, fu lì che mi resi conto che questa non è una solo squadra per loro, questo è un amore viscerale, come quello che c’è tra una madre ed un figlio. Fu l’unica volta che dopo aver perso rimasi in campo per godermi lo spettacolo.
Ma non è solo spettacolo. Parlando del Napoli si deve andare più a fondo, perché si trascende dal calcio e si entra nel campo più ostico dell’identità, della storia, dell’orgoglio campanilistico. Napoli è il Sud; è il canalizzatore di tutti i risentimenti della lunga e complessa storia della città. Essere tifoso del Napoli è una scelta prima di tutto territoriale e identitaria. E l’identità di Napoli è fatta anche di tradizione e superstizione, dramma e ironia; il sacro e il profano si mescolano a creare quel miscuglio di assurdità, sorpresa e stupore. Non è un caso che i giocatori abbiano la stessa influenza dei santi, trasformati in icone e idolatrati come solo San Gennaro. La gente qui “è prima di tutto napoletana e poi italiana“, spiega Daniele “Decibel” Bellini, iconico speaker del Napoli. I napoletani hanno la loro lingua, una cultura al tempo singolare e universale, e una storia sofferta che trova vendetta nelle vittorie della loro squadra.
Come scriveva Paliotti, a Napoli, città assurda, nulla è assurdo. Dai Quartieri Spagnoli fino allo stadio Diego Armando Maradona e oltre, le strade da mesi si sono vestite di festoni bianchi e blu; edifici e gradini sono stati dipinti con le stesse tonalità. Ritagli a grandezza naturale dell’attuale squadra occupano le piazze, magliette dei club e dei giocatori sono attaccati ai fili del bucato che albereggiano nei vicoli, e i giovani fanno la fila per comprare il panino Azzurro Napoli nella famosa paninoteca Con Mollica o Senza? Le camere d’albergo per i prossimi due mesi sono quasi tutte prenotate. Expats desiderosi di festeggiare, tifosi di calcio incuriositi dalla storia del Napoli e visitatori inaspettatamente coinvolti in questo momento storico stanno arrivando in città. Il successo sportivo è il motore del boom turistico. Quando il Napoli vinse il primo scudetto nel 1987 comparve una scritta sul muro del cimitero di Fuorigrotta: “Che vi siete persi“. Una generazione troppo giovane per ricordare tale gloria corre per viverla ora, senza filtri.
Una generazione che si è legata in un tutt’uno a Maradona, ma per quanto sia stato il più grande, l’immagine del Napoli non può dipendere da lui. Deve essere molto di più. Ed è bello che questo scudetto, come un’opera di Altman, sia stato corale: tutti hanno contribuito, nessuno più di un altro. Maradona è ovunque nell’affascinante e vertiginoso labirinto di strade: vetrine dei bar, adesivi per paraurti, cartelloni pubblicitari e murales giganti sui muri fatiscenti. Al Bar Nilo una ciocca dei suoi capelli è l’elemento centrale di un santuario a lui dedicato. In un museo sotterraneo sono esposti i beni acquisiti dal figlio della sua cameriera quando il calciatore lasciò la città. Maradona, però, è il passato. Vecchi altari sono pronti ad accogliere nuovi volti. Maradona è stato il volto del precedente trionfo del Napoli, ma questa volta sono emersi eroi sconosciuti, abilmente ingaggiati da Cristiano Giuntoli e migliorati dall’allenatore. Spalletti non è napoletano, ma condivide quella passione partenopea. Dopo essere stato esonerato dall’Inter, ha trascorso due anni nella sua fattoria in Toscana prima di assumere l’incarico del Napoli. Un isolamento eremitano, per un personaggio che, per citare le parole di uno che lo conosce bene, Walter Sabatini, è un genio senza regole. Mai definizione fu più azzeccata per descrivere un allenatore del Napoli, squadra anomala, continuamente sottovalutata come la città che rappresenta. Una squadra data all’inizio per sconfitta che ha saputo stupire tutti per costanza e bellezza. È davvero il caso di dire: “bravi tutti“. La maledizione si è spezzata, Napoli è campione e ancora di più a’ sape tutto o’ munno. Sembra quasi che Napoli sia tornata capitale, ma sembrerebbe un’esagerazione. Del resto, rimane una città di contrasti, non solo per i cambiamenti che derivano da cause esterne, ma anche per quelli che derivano dal suo intimo: è complessa per incostanza, per leggerezza, per novità, per stanchezza, per nausea; è capricciosa, ruffiana, ipocrita: finge di essere spensierata quando è triste; vive di tutto, vive di niente; si accontenta delle cose come della loro privazione. Infine, si preoccupa solo di esistere, e pur di esistere accetta di essere nemica di se stessa. Il suo mare ne è un’immagine sensibile in cui trova nel flusso e nel riflusso delle sue onde continue una fedele espressione dei suoi turbamenti e dei suoi mille culure.