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Il razzismo uccide il calcio, non la pirateria

Il finale di Juventus-Inter ha di nuovo posto l’accento su quello che è il vero problema del calcio italiano: il razzismo. Che un giocatore subisca i “buu” e gli insulti di frange di tifosi beceri è anacronistico oltre che squallido, ma che un’esultanza venga interpretata come provocatoria verso quegli stessi tifosi è ancora più folle e prosaico. Al razzismo bisogna rispondere colpo su colpo e non comportarsi come se il problema fosse marginale. E l’ammonizione di Lukaku è una dimostrazione di quanto il nostro calcio sia ipocrita. Tempo fa si parlava di sospendere le partite quando un giocatore nero subiva insulti, ma quante partite sospese abbiamo visto? Eppure gli insulti volano di bocca in bocca, di stadio in stadio ogni maledetta giornata.

Strano anche notare come ad oggi nessuno del gotha del calcio si sia espresso. Non abbiamo sentito dichiarazioni né di Gravina, né di Casini e né di De Siervo. Ci ha provato il ministro Abodi con un tweet che in sostanza non dice nulla. Il solito comportamento pilatesco di un Paese anormale.

Come se non bastasse l’osceno visto in campo, ecco che nelle tv nazionali si è sminuito l’accaduto. La conduttrice nel post partita su Canale 5 ha esordito così: “Sappiamo che queste cose capitano spesso… ma i calciatori hanno le spalle larghe“. No, i giocatori non dovrebbero essere indifferenti a tutto questo, così come i giornalisti. E soprattutto, che queste cose capitino spesso è un’aggravante da condannare, non da minimizzare.

Poi, ci sono loro: i calciatori. Dichiarazioni di alcuni giocatori juventini lasciano ancora di più l’amaro in bocca. Ne citiamo solo una, quella a nostro avviso più aberrante. Mattia Perin ha detto nel post partita ai microfoni di Mediaset: “Dobbiamo essere i primi a dare l’esempio ma in queste partite è difficile frenarsi. È una mancanza di rispetto esultare sotto la curva della squadra avversaria, probabilmente non gli [riferimento a Lukaku] è stato detto e il parapiglia è scoppiato per questo“. Disarmante. Ci si aspetterebbe, almeno in queste gravi situazioni, una solidarietà tra colleghi. Niente, l’ottusità va oltre qualsiasi barriera. Anche perché non si tratta di tifo. Non c’entrano i colori qui; la lotta al razzismo dovrebbe essere trasversale a qualsiasi fede calcistica.

L’unico a dare un segnale forte non vive in Italia (sic!). Si chiama Michael Yorkmarc ed è il presidente di Roc Nation, società che cura i diritti d’immagine del giocatore belga. Yorkmarc attraverso un comunicato ha dichiarato:

Gli insulti razzisti verso Romelu Lukaku da parte dei tifosi della Juventus sono spregevoli e non possono essere accettati. Romelu ha trasformato un rigore nel finale della partita e prima, durante e dopo il rigore è stato oggetto di abusi razzisti ostili e disgustosi. Romelu ha esultato nello stesso identico modo fatto in precedenti gol. La risposta dell’arbitro è stata quella di ammonirlo. Romelu merita delle scuse da parte della Juventus e mi aspetto che la Lega condanni immediatamente i comportamenti di questo gruppo di tifosi bianconeri. Le autorità italiane devono utilizzare questa opportunità per porre un freno al razzismo, invece che punire la vittima degli abusi. Sono certo che il mondo del calcio condivida lo stesso sentimento.

Tristemente quello che è accaduto ieri non è il primo e non sarà l’ultimo episodio di razzismo. A gennaio durante Lecce-Lazio, il difensore zambiano, Banda e, il francese di origini camerunesi, Umtiti, sono stati oggetto di cori razzisti da parte della tifoseria ospite, al punto che il direttore di gara, Marinelli, ha fatto leggere dallo speaker il messaggio che minacciava l’interruzione della gara. Ma la memoria va ancora oltre: all’espulsione di Koulibaly vittima di insulti durante un’Inter-Napoli, e a Marco André Zoro, che durante un’Inter-Messina prese la palla e fermò il gioco dopo aver subito fischi e insulti da parte della curva interista. Minacciò di andare via, ma incoraggiato dai giocatori nerazzurri riprese a giocare. Ha ragione Paola Egonu nel dire che l’Italia è un Paese razzista. E non lo è per i cori e gli insulti, ma perché ogni volta si cerca di contestualizzare l’accaduto, giudicando la vittima. Lo sport è la manifestazione più chiara di una società, e la nostra è una di quelle in cui le distanze sociali diventano sempre più marcate, in cui l’ignoranza e la paura del prossimo fanno sì che anche una suggestione possa  diventare concreta fino a generare un effetto domino con conseguenze reali e pericolose. È il Teorema di Thomas: “Se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze”. 

In Inghilterra esistono leggi apposite contro il razzismo negli stadi e molte società, come il Chelsea, hanno istituito dei veri e propri corsi contro il razzismo per i loro tifosi. Probabilmente però, più che guardare agli inglesi dovremmo copiare dai tedeschi. Dagli anni Novanta in Germania vige la regola del “50+1“: la maggioranza delle quote è dei tifosi che in questo modo diventano soci. Una norma che non solo tutela la tifoseria e la sua importanza, ma permette anche di “educare” il tifoso che si sente così più responsabilizzato. Certo ad eccezione dei club medio-piccoli, questa regola viene sempre più boicottata dai top club perché limita la possibilità di grossi investimenti privati. Del resto lo sappiamo, da quando il rapporto con i tifosi è più importante dei soldi?

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