Durante la preparazione per la Coppa del Mondo del 1987, la prima nella storia del rugby, la nazionale irlandese era composta da giocatori che provenivano da ogni angolo dell’isola, e militavano nelle squadre delle 4 province d’Irlanda: Connacht, Leinster, Munster e Ulster. Quest’ultima era politicamente annessa al Regno Unito e palcoscenico di continui e brutali scontri tra le forze protestanti e quelle dell’IRA. Di quella nazionale ben dieci giocatori provenivano dall’Ulster e tutte le volte che la nazionale si riuniva a Dublino per gli allenamenti, i giocatori nord irlandesi venivano scortati dalla An Garda Síochána, la polizia repubblicana. Una situazione piuttosto scomoda, ma di sicura efficacia dato che non erano mai stati registrati incidenti; almeno fino a quando l’auto di alcuni giocatori non incrociò quella del giudice dell’Alta corte dell’Irlanda del Nord, Lord Justice Gibson.
Un giorno in cui era previsto il raduno della nazionale nella capitale irlandese David Irwin, Nigel Carr e Phillip Rainey non si presentarono. Dovevano arrivare da Belfast, ma a Dublino nessuno li vide. Il loro viaggio era stato tranquillo fino ai confini dell’Ulster, ma sfortuna volle che la loro auto incrociò quella del giudice, bersaglio dell’IRA. Al passaggio dell’auto di Gibson, accompagnato dalla moglie, una bomba di 220 chili esplose, uccidendo sul colpo i coniugi. In quell’esatto istante passava in senso contrario l’auto dei giocatori, che riuscirono a salvarsi per miracolo, ma subirono gravi conseguenze: a causa delle ferite riportate, Carr non fu più in grado di riprendere la sua carriera da rugbista.
Questa tragedia è la sintesi dell’unicità di una nazionale i cui giocatori fanno parte di due nazioni diverse, una delle quali, all’epoca era epicentro di attacchi terroristici. Una nazionale che in quei primi mondiali non aveva nemmeno un inno.
Quando ho visto le altre squadre, tutte così fiere del loro inno nazionale, e la passione con cui lo contavano, ho avuto la sensazione che ci mancasse qualcosa.
My life in rubgy – autobiografia del capitano Donal Lenihal
Per ovviare al problema, in fretta e furia e un po’ amatorialmente si decise che durante le partite dell’Irlanda dovesse essere suonata la gracchiante registrazione di una ballata popolare, The Rose of Tralee. Ma il risultato fu così demoralizzante che scatenò un acceso dibattito post mondiale che portò dopo otto anni ad avere finalmente un inno ufficiale.
Giusto in tempo per i Mondiali sudafricani del 1995 ecco che le partite irlandesi risuonavano sulle note di Ireland’s call. Ma dato che l’Irlanda è speciale, visto che la nazionale comprende 2 nazioni, ecco allora 2 inni: quando l’Irlanda gioca in casa riecheggiano Ireland’s call e Amhrán na bhFiann, tanto cara agli irlandesi del sud, quando è fuori casa bastano solo le note del primo. Ma non dovete pensare che questo abbia depotenziato lo spirito della selezione irlandese, anzi. E la dimostrazione avvenne nell’epica sfida di Lansdowne road contro la Nuova Zelanda. Il capitano Willie Anderson tenendosi a braccetto con i compagni di squadra, mentre i neozelandesi si esibivano nella famigerata Haka, in un estasi adrenalinica da competizione avanzò fino ad arrivare ad un palmo dal naso dal capitano neozelandese Buck Shelford.
Fu un episodio che fece impazzire i quasi 50mila tifosi sugli spalti. Ma quella, sfortunatamente per Anderson, fu una sera indimenticabile. Mentre faceva gli onori di casa durante il terzo tempo alcuni dirigenti della squadra lo informarono che un suo caro amico era caduto nell’Ulster, vittima di un attacco terroristico. Glielo avevano tenuto nascosto in modo che giocasse con la testa libera. L’amico 37enne era un ufficiale dell’Ulster defence regiment, uno dei principali bersagli dell’IRA.
Come sempre abbiamo giocato come se la nostra vita dipendesse da questo, e lì per lì ci sembrava la cosa giusta. Ma la vita reale è quella fuori dal campo. Per me la vita reale è la morte del mio amico Bob Glover, che l’IRA ha fatto saltare in aria un paio di giorni fa, e stasera vorrei onorare la memoria di un brav’uomo.
Dal discorso post partita di Willie Anderson
Come se non bastasse, questo discorso non piacque alla federazione irlandese, affezionata alle sue tradizioni e che non vede mai di buon occhio quando la politica diventa l’argomento topico in un suo evento.
Ma la divisione nel rugby irlandese è ancora più viscerale, ed è intrinseca al modo stesso in cui questo sport è concepito. Giocare a rugby è di per sé un elemento identitario per i giovani irlandesi. Nove volte su dieci significa che fai parte di un mondo elitario, fatto di istituti privati e tradizioni secolari. Il calcio e gli sport gaelici sono per chi frequenta le scuole pubbliche.
Nel 1998 due giornalisti del Sunday tribune, Paul Howard e Ger Siggins, crearono un personaggio che ancora oggi resta uno dei casi editoriali di maggior successo, con oltre un milione di copie vendute, 23 libri e 4 adattamenti teatrali. Si trattava di una rubrica che raccontava le avventure liceali di un giovane rugbista, tale Ross O’Carroll-Kelly. Già il nome sintetizzava i temi trattati giacché l’acronimo Rock, portava alla mente il nome della scuola di rugby più grande e famosa del Paese: Blackrock. Sebbene fosse nata come una rubrica satirica su un mondo, quello del rugby giovanile, che si prendeva fin troppo sul serio, i giovani lettori amavano talmente le storie di Howard che si ritrovavano in quei personaggi, ed erano felici che quel mondo, il loro mondo fosse sotto i riflettori.
Quello che Ross O’Carroll-Kelly raccontava era una frattura identitaria, meno marcata di quella Nord-Sud, ma non meno divisiva. Un giovane aspirante rugbista irlandese sa bene che per avere maggiori chance di coronare il suo sogno dovrà frequentare un certo ambiente. Non è un caso che nel 2021 in occasione della sfida contro l’Italia nel Sei nazioni ben 13 giocatori erano cresciuti nelle scuole private e solo 5 da scuole pubbliche. Oltretutto, esiste un epicentro del rugby giovanile, un solo ristretto bacino d’utenza, che è circoscritto nella piccola area meridionale della contea di Dublino, dove sorgono i più importati istituti privati: il, già citato, Blackrock e il Saint Michael’s. È impressionante notare quanto queste due scuole siano prolifiche nel formare giovani atleti, ma anche quanto il bacino sia limitato.
Ma proprio perché nulla è mai così scontato, ci sono le eccezioni. E qui ci viene in aiuto la più famosa eccezione della storia recente del rugby: Tadhg Furlong. Considerato da molti il miglior pilone destro del mondo e colonna dei Lions britannici (la selezione dei migliori giocatori di Inghilterra, Galles, Irlanda e Scozia), il suo percorso non rispecchia affatto quello classico: viene dalla contea di Wexford e ha iniziato a giocare nella Federazione degli sport gaelici, lontano anni luce dal mondo ricco dei rugbsti di Dublino. Ma il talento, il duro lavoro e una buona dose di fortuna lo hanno portato ad emergere in questa cerchia ristretta. Il suo è solo uno dei pochi esempi di come ogni tanto dai recessi dell’istruzione pubblica emerga qualcuno di speciale. Ma purtroppo, questo per le istituzioni è il segno che il sistema funziona. Ma in un Paese piccolo come l’Irlanda il non volere sfidare la tradizione per abbattere le barriere è pura follia.