L’ex campione di scacchi Bill Hartston una volta disse: “Gli scacchi non fanno impazzire le persone, mantengono le persone pazze sane“. Nulla di più vero se consideriamo la vita di uno dei più grandi scacchisti di sempre, Bobby Fischer. Sebbene nella sua vita gli scacchi abbiano rappresentato l’unico punto di fuga verso il quale tutte le sue azioni venivano dirottate (“Gli scacchi sono meglio del sesso“, pare abbia detto una volta), definirlo semplicemente come scacchista è riduttivo. È stato un artista, nella declinazione che gli dava Proust: ha dedicato la vita a se stesso per andare in profondità, ”la sola direzione che non ci sia chiusa, in cui possiamo progredire, con più fatica, è vero, verso un risultato di verità”. La sua arte sono stati gli scacchi che, come affermò, erano per lui il solo modo per ricercare la verità. Una verità non universale, ma tutta sua, privata, mai del tutto chiara agli altri, spesso, anzi, contorta per quelli che gli erano a fianco con mille fatiche e tante speranze. Ma è per quella verità che noi oggi siamo qui e continuiamo a scrivere e parlare di lui.
A renderlo un personaggio di culto non sono state solo le vittorie incredibili o i record ancora imbattuti, ma anche il fatto che abbia dedicato la sua intera esistenza non a vincere in uno sport come gli scacchi, ma all’obiettivo incerto di poterli cambiare.
La sua infanzia non è stata una di quelle da incorniciare, considerando il rapporto conflittuale con la madre, Regina Wender, una donna di origini ebraiche, ribelle e indipendente. Un rapporto culminato in una totale avversione: quando lei decise di andare via di casa, lasciando il figlio appena sedicenne nelle mani della sorella maggiore Joan, lui interruppe i rapporti. Ed è forse questa relazione la causa scatenante della sua follia e della sua malevolenza nei confronti delle donne e degli ebrei.
In risposta al commento della campionessa statunitense di scacchi Lisa Lane che lo considerava ‘il più forte giocatore vivente‘, dichiarò: ‘L’affermazione è corretta, ma Lisa Lane non può valutarlo. Le donne sono deboli, tutte le donne lo sono, e sono stupide se paragonate agli uomini, non dovrebbero giocare a scacchi. Contro un uomo perdono sempre, non esiste donna al mondo alla quale non potrei dare un cavallo di vantaggio e vincere ugualmente.‘
Regina non si limitava a svolgere una molteplicità di lavori, lasciandolo spesso solo nel loro piccolo appartamento, ma trascorreva il resto del tempo organizzando proteste politiche. Era una simpatizzante comunista, molto preoccupata dell’attenzione dell’FBI nei suoi confronti al punto da inculcare nel figlio una diffidenza verso le autorità. Si potrebbe dire che le prime lezioni di vita che Bobby ricevette furono sulla paranoia e sulla solitudine. Di certo, nel rapporto con la madre influì anche il non sapere chi fosse il padre. Ufficialmente era il tedesco Gerhardt Fischer, il quale aveva conosciuto Regina a Mosca dove lui si occupava di biofisica all’università e lei dopo una lunga gavetta era diventata medico. Ma secondo una ricerca illuminante del 2002 di Peter Nicholas e Clea Benson pare che il padre biologico di Fischer fosse il fisico ebreo ungherese Paul Nemenyi. Comunque, chiunque sia stato suo padre, è interessante notare come geneticamente fosse predisposto all’analisi e al calcolo, come ha cercato di approfondire l’opera di Joseph G. Ponterotto Psychobiography of Bobby Fischer: Understanding the Genius, Mystery, and Psychological Decline of a World Chess Champion.
L’unico legame familiare solido era con la sorella che aveva cinque anni più di lui, la quale gli comprò il suo primo set di scacchi quando Bobby aveva appena 6 anni. Si seppellì in quel gioco; divenne la sua ossessione, che poi è un altro modo di chiamare la passione. Non aveva altro interesse che gli scacchi: giocava mentre mangiava, giocava nella vasca da bagno, giocava quando avrebbe dovuto essere a scuola. Assorbiva pagine di notazioni in pochi secondi e imparò il russo solo per poter studiare la letteratura scacchistica sovietica. Più imparava sugli scacchi, meno gli importava della scuola, dell’amicizia, delle ragazze o di qualsiasi altra preoccupazione adolescenziale. La madre, intravedendo i primi segni di un comportamento antisociale e ossessivo, lo portò da uno psicologo che sminuì il problema, affermando che c’erano cose più gravi che una fissazione per gli scacchi. Oggi, molti individuano in quel suo carattere schivo, nelle sfuriate improvvise e nell’esclusiva e parossistica fissa per gli scacchi chiari sintomi della sindrome di Asperger.
Avendo come pensiero fisso solo gli scacchi ed essendo predisposto allo studio analitico, divenne un portento in questo sport: all’età di 13 anni divenne il giocatore più giovane a vincere il campionato juniores degli Stati Uniti; un anno dopo, era già campione di scacchi degli USA; e all’età di 15 anni era la persona più giovane a detenere il titolo di Gran Maestro.
Più macinava vittorie, più iniziavano a manifestarsi con maggiore frequenza quegli atteggiamenti paranoici che alla fine lo avrebbero inghiottito. Non di rado litigava con gli organizzatori dei tornei, abbandonava a metà le partite, e spesso si faceva accompagnare dal suo avvocato per paura di irregolarità. Più vinceva, più aveva paura di perdere. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta divenne uno dei più affermati giocatori di scacchi del mondo. Partecipò a diverse competizioni internazionali, come quelle a Stoccolma, dove vinse il torneo con 2,5 punti di vantaggio sul secondo classificato, e a Curaçao, dove si scagliò ferocemente contro i sovietici.
Era il periodo della Guerra Fredda (pochi mesi dopo il torneo ci fu la crisi dei missili di Cuba), ma a Fischer della politica non interessava assolutamente nulla; aveva il solo e unico obiettivo di battere tutti con una scacchiera. La sua mente non aveva spazio per altre battaglie. Nell’isola caraibica accusò pubblicamente i russi di “aver truccato lo scacchismo mondiale“. Riteneva che i giocatori sovietici facessero squadra, accordandosi tra loro per arrivare a delle patte veloci (cosa disgustosa per lui che le odiava), per essere così nel pieno delle energie contro gli avversari non russi. Questo lo portò ad un duro scontro con la FIDE, la Federazione internazionale degli scacchi, che pure aveva acconsentito a modificare il regolamento per dare maggior spazio ai giocatori non sovietici. Ma questo a Fischer non bastò. Per diversi anni sparì dalle scene internazionali, si rifiutava di partecipare ai tornei. Una protesta tutta sua che durò per cinque anni fino a quando nel 1967 ritornò sui suoi passi, accettando di partecipare al torneo internazionale di Susa, in Tunisia. Dopo dieci turni era in testa con ampio margine, ma scoppiò una batracomiomachia sulle pratiche religiose tra lui e gli organizzatori, e non si presentò alla partita successiva; pertanto venne squalificato. Aveva maturato una pervicace convinzione che per essere il migliore doveva battere i sovietici e doveva battere il più forte di tutti loro: Boris Spasskij, il campione del mondo. Nel 1970 si riconciliò ancora una volta con la FIDE, e a Palma di Maiorca con un’incredibile serie di 20 vittorie di fila ottenne il pass per sfidare Spasskij. Stava mostrando a tutti la sua pura volontà di vincere: le patte venivano respinte; gli avversari ridotti in polvere. Per battere la macchina sovietica, si era trasformato in una macchina. Ma non si trattava solo di vincere, aveva scommesso troppo su di sé e sui quei 32 pezzi che la sconfitta gli doveva sembrare la morte: perdere era buttare via tutti gli anni vissuti fino ad allora.
La grande sfida tra Fischer e Spasskij, quella che i giornali chiamarono Il match del secolo, avvenne nell’estate del 1972 a Reykjavík. L’evento, che mise l’Islanda sulla mappa, fu da tutti letto come la grande sfida tra il blocco occidentale e quello sovietico. La possibilità che un americano potesse metter fine al dominio sovietico di quello sport che durava da 24 anni era una gemma per la propaganda americana. Agli occhi del mondo Fischer e Spasskij erano le due pedine di una scacchiera molto più vasta e complessa: la guerra.
Reykjavík non fu una scelta insolita. Le ragioni della passione degli islandesi per gli scacchi sono intrinseche al freddo e al buio della vita in quell’isola a poche centinaia di chilometri dal Polo; la natura stessa di quel gioco fatto di silenzio e metodo si adatta alla perfezione alla natura degli islandesi. Per decenni l’Islanda ha contato più Grandi Maestri di tutti gli altri Paesi scandinavi messi insieme. In quegli anni, ogni volta che Friðrik Ólafsson, il primo Gran Maestro islandese, era impegnato in un torneo internazionale, le scuole e i cinema chiudevano.
Il torneo doveva iniziare il 2 luglio, ma Fischer non si presentò. Era ancora a New York. Bisognò raddoppiare il montepremi e, soprattutto, fu necessaria una telefonata dell’allora Consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger, che gli chiese di giocare e vincere per la sua nazione, per convincerlo a partire. Il 3 luglio Fischer partì, il 4 luglio la sfida iniziò. Perse le prime due partite: la prima perché si suicidò con una mossa assurda nel vano tentativo di evitare la patta e la seconda perché, a sua detta, fu infastidito da tutto: la sala, la scacchiera, le sedie, il pubblico e le telecamere. Minacciò di ritirarsi e così Spassky, pur di non accettare la gloria di una vittoria a tavolino, accettò le folle pretese dell’avversario, come quella di giocare la terza partita in una stanza del palazzo abitualmente usata per il ping-pong. Fischer vinse e fu la svolta. L’1 settembre Bobby Fischer si laureò campione del mondo con il punteggio di 12½ a 8½. In America come in Europa, scoppiò la Fischer-mania. Ci fu un boom degli scacchi come mai prima. Le iscrizioni ai club di scacchi ebbero un’impennata che fu la scintilla per la nascita di futuri campioni apprezzati ancora oggi.
Avrebbe dovuto essere l’inizio della sua gloria, ma invece fu la sua fine. Dopo l’incontro del secolo, le sue richieste divennero sempre più eccessive al limite dell’oltraggio. Quando nel 1975 dovette difendere il titolo mondiale contro Anatoly Karpov, chiese di cambiare le regole. Voleva che si giocasse una partita a tempo indeterminato: il primo che avrebbe vinto 10 partite, pareggi esclusi, si sarebbe laureato campione. Il rischio che una partita del genere potesse durare per mesi era più che probabile, così la FIDE respinse le sue richieste e Fischer perse la corona. Da allora non giocò più nessuno dei grandi tornei. Era arrivato vicino alla perfezione, a trovare la verità oggettiva alla quale i giocatori di scacchi aspirano, e temeva una caduta, una perdita di certezza. Gli scacchi sono uno sport usurante e con l’età le capacità dei giocatori raramente migliorano. Fisher non voleva essere sconfitto.
Lui perse la corona e il mondo le sue tracce. Si sa poco di quello che fece dopo il titolo mondiale. Sappiamo che si trasferì in California dove si unì ad un gruppo religioso pieno di “ragazze vivaci con grandi seni“. Una situazione frustante per Fischer, il cui rapporto con il sesso è sempre stato censurato dalle sue ossessioni (esiste una ricca letteratura freudiana sugli scacchi e sul sesso, in cui, ad esempio, il sacrificio di una regina è associato a una sublimazione dell’omosessualità). Abbandonò la setta nel 1975 e si trasferì in un piccolo seminterrato a Pasadena dove sopravvisse per diverso tempo solo con gli assegni della previdenza sociale di sua madre. Grazie al pamphlet Sono stato torturato nella prigione di Pasadena! che pubblicò con lo pseudonimo di Robert D. James, sappiamo che nel 1981 fu arrestato per errore dopo essere stato scambiato per un rapinatore di banche ricercato dalla polizia, dalla quale dichiarò di essere stato trattato brutalmente.
Verso gli inizi degli anni Novanta, tramite la United States Chess Federation, strinse una relazione epistolare con una giocatrice ungherese di scacchi di 17 anni, tale Zita Rajcsányi, che lo convinse a partecipare di nuovi ai tornei di scacchi. Accettò di partecipare nel 1992 a una partita da 5 milioni di dollari contro Spassky, il rivale storico, in una Jugoslavia dilaniata dalla guerra. All’epoca la Jugoslavia era oggetto di un embargo delle Nazioni Unite e Fischer fu avvertito dal governo americano che la sua partecipazione all’evento era contraria alla legge statunitense; durante la conferenza stampa sputò sul documento del Dipartimento USA.
Fischer e Spassky giocarono quella partita, ma ormai non erano più nel fiore degli anni: si affrontarono come due vecchi pugili flaccidi alla fine della loro carriera. Non potendo più tornare negli Stati Uniti, dove ormai era a tutti gli effetti un fuorilegge, trovò riparo a Budapest, ospite delle due più importanti dinastie ungheresi di scacchi, i Polgar e i Lilienthal, entrambe ebree. Sopportavano le sue invettive antisemite solo perché era ancora apprezzato nelle comunità scacchistiche internazionali. Fu Fischer che alla fine voltò loro le spalle, citando, come sempre, tradimenti reali o immaginari. Come ammise lui stesso, si sentiva come Truman Burbank, il protagonista di The Truman Show: l’unica persona vera in un mondo di attori disonesti. L’ingenuo e mondano Fischer, quello che nascondeva la sua mania dietro un buon gusto per la moda e che atteggiava comportamenti eleganti, senza gli scacchi era senza ancoraggio e infuriava contro il mondo, non risparmiando nessuno. Nel 2000 si trasferì nell’Estremo Oriente dividendosi tra il Giappone, dove ebbe una relazione stabile con Miyoko Watai, il capo della Japanese Chess Association, e le Filippine, dove al contrario godeva di una vita da playboy. Fu un breve periodo di pace brutalmente interrotto dall’attacco alle Torri Gemelle, la pietra tombale della sua relazione con gli USA. Quando avvenne la tragedia, Fischer in un delirio antiamericano, si schierò a favore di Al-Qaeda. Se prima per il suo Paese era solo uno dei tanti ricercati, ora era la vendetta a guidare gli USA.
‘Una grande notizia’ – aveva detto in un’intervista – ‘È tempo di distruggere gli Stati Uniti una volta per tutte’.
Da figlio prediletto a nemico odiato il passo fu breve. Fu emanato un mandato di cattura internazionale e nel 2004 venne arrestato in Giappone. Passò 8 mesi in una prigione giapponese in attesa dell’estradizione per gli Stati Uniti. C’era ormai poco da fare, eppure, ecco che avvenne il miracolo. Gli islandesi ancora lo veneravano. All’inizio gli offrirono il permesso di soggiorno, ma dopo che gli Usa accusarono Fischer anche di evasione fiscale e riciclaggio, un passaporto scandinavo non era sufficiente per evitargli la scarcerazione. Serviva qualcosa di più. Serviva la cittadinanza islandese. Il 21 marzo 2005 con una procedura speciale che durò dodici minuti, il parlamento approvò la mozione: Robert James Fischer divenne ufficialmente un cittadino islandese. Il giorno dopo con un jet privato atterrò nell’aeroporto di Keflavík, accolto come una star. Rimase su quell’isola per il resto della vita. Non fu semplice trovare un appartamento che fosse gradito al nuovo cittadino di Reykjavík. La prima casa dove andò ad abitare era bella, ma troppo vicina alla cattedrale e alle sue campane; la seconda pericolosamente prossima all’aeroporto; la terza silenziosa ma con i lampadari troppo appariscenti; dalla quarta si godeva di una vista che distraeva troppo; la quinta era eccessivamente moderna. Alla fine optò per una casetta in rovina, con il bagno rotto e alcune porte mancanti. Al piano terra, un sexy shop. Per come la vedeva lui, non si sentiva affatto in debito con i suoi nuovi connazionali e faceva esattamente l’esatto contrario di quello che si aspettavano. Ci sono diversi aneddoti della sua vita quotidiana lì vicino al Polo Nord, come quando si lamentò ripetutamente della donna delle pulizie perché non sorrideva mai, oppure quando, pur di non dover guardare in faccia il tecnico informatico, che era in casa per riparargli il pc, gli diede indicazioni via telefono da un’altra stanza. Sul suolo islandese, forse l’età, forse la tranquillità di quella gente o l’eterna bellezza della natura, trovò la pace. Morì nel 2008 all’età di 64 anni, un anno per ogni quadrato della scacchiera.
‘Niente’ – pare abbia detto poco prima di morire – ‘allevia il dolore quanto il tocco umano’.
Fischer divenne grande prima dell’era del computer. I Grandi Maestri ora usano programmi dedicati per le loro strategie di apertura, lui ha dovuto tracciare da solo il proprio percorso. E l’elemento affascinante è che dimostrò che la sua filosofia di gioco poteva effettivamente essere quella vincente. La sua idea si basava sulla convinzione che a vincere dovesse il miglior giocatore per inventiva e capacità di adattamento. Non sopportava il fatto che in molti studiassero a memoria le combinazioni delle aperture, ritenendo quel tipo di approccio (comunissimo tutt’oggi) un imbroglio. L’idea che gli scacchi fossero una prova di intelligenza e creatività e non di studio mnemonico divenne presto una fissazione con continue paranoie sull’essere spiato e i suoi appunti rubati. Era persino arrivato a teorizzare una variante degli scacchi che rendeva impossibile memorizzare le aperture: Scacchi960. A differenza degli scacchi classici, i pezzi potevano essere disposti a caso a inizio partita (esclusi pedoni e torri, per permettere l’arrocco), generando 960 possibili combinazioni iniziali.
Fischer ha avuto la forza di far sembrare violenti gli scacchi, un gioco da tavolo. La sua personalità destabilizzante, la sua arroganza, la sua estenuante mentalità competitiva hanno dato agli scacchi una forma fisica. Non è stato lo scacchista più vincente di tutti i tempi, ma di sicuro è stata la stella di questo sport che ha brillato di più, anche se per poco. Una supernova instabile che ardeva con tale intensità che alla fine è implosa. I suoi scacchi avevano una certezza gloriosa che non poteva trovare in vita. Non potendo migliorare la sua vita, ha cercato di migliorare il suo gioco preferito. E mi torna subito in mente quanto affermava Akutagawa:
Certe volte l’essere umano dedica l’intera esistenza a un obiettivo della cui realizzazione non può essere certo. Chi ride di una simile follia, in fondo, non è più di uno spettro sul ciglio della strada della vita.