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Kok Boru, il destino di una capra

È il 31 agosto e il sole batte cocente sulle strade di Bishkek; ci sono 38°C all’ombra. Gli abitanti si sono tutti riversati nelle strade, dispersi tra le bancarelle che vendono la qualunque e le attrazioni per bimbi e adulti. La vodka viene alternata a due pietanze tipiche del luogo: il sumalak, un piatto di grano germogliato che le donne preparano durante un rito serale, e l’halim, una specie di porridge con carne di origine persiana. È un giorno di festa perché è l’anniversario dell’indipendenza del Kirghizistan dall’URSS.

Bishkek cibo

La folla si muove svelta e i piccoli crocchi che si sono formati negli angoli delle bancarelle pian piano confluiscono nel fiume di persone che si muove spedito verso l’arena della città: sta per iniziare un torneo di Kok Boru. Il Kok Boru, conosciuto anche come Buzkashi o Kokpar, è lo sport nazionale del Kirghizistan. Sebbene si giochi principalmente nei mesi invernali, l’anniversario dell’Indipendenza è un’occasione troppo importante per non ospitare lo sport per antonomasia del popolo dei kirghisi.

Il Kok Boru è una commistione violenta tra il rugby e il polo che non si gioca né con una palla ovale né con una di legno ma con una carcassa mozzata di una capra. Solitamente divisi in due squadre, gli uomini a cavallo galoppano con questa capra senza testa, che pesa circa 20kg, incuneata tra la gamba e la cavalcatura per cercare di portare la carcassa nelle porte avversarie, delle specie di pozzi chiamati tai kazan. Il gioco ha origini millenarie giacché fu portato in queste zone dell’Asia centrale dalle orde mongole di Gengis Khān, sebbene allora si preferiva giocare più con la carcassa di uomo che con quella di un ovino. 

kok boru

È uno sport violento in cui l’unica regola è che non ci sono regole. I fantini possono picchiare gli avversari e addirittura in Afghanistan i giocatori usano attrezzarsi anche con dei fucili AK-47, un comportamento considerato volgare da molti appassionati. Sebbene sia comunque ai nostri occhi ancora brutale, la versione kirghisa è un affare più addomesticato, dove gli atti di estrema violenza vengono fortemente condannati. Non mancano, però, momenti di paura anche tra gli spettatori che più si avvicinano al campo più rischiano di rimanere feriti. La foga con cui i fantini si affrontano in una nube di polvere senza fine, con i cavalli che si agitano ed ansimano mentre i loro cavalieri con le facce di sudore e fango si dimenano, può portarli a perdere il controllo e a essere catapultati sugli astanti. Non di rado si vedono parti degli spalti svuotarsi improvvisamente con gli spettatori correre in tutte le direzioni per evitare che uno stallone impazzito gli vada addosso.

Anche Rambo non ha disdegnato una partita di Kok Boru

La violenza di questo sport è da comprendere considerando che in passato il gioco addestrava gli uomini ad essere coraggiosi e audaci, qualità necessarie ai guerrieri. Un retaggio culturale che si tramanda fin da bambini i quali imparano a giocare montando asini e usando al posto di una capra vera una replica imbottita di fieno. 

È uno sport che fermenta nei villaggi più che nelle città; è lì che vivono i migliori giocatori e prendono vita le partite più autentiche. Ogni paesino in Kirghizistan ha un’arena in cui hanno luogo le partite del campionato nazionale. I giocatori non sono professionisti, ma la maggior parte sono contadini ed è per questo che il campionato si svolge durante l’inverno: hanno più tempo libero. I giocatori condividono tra loro il costo della capra e a volte i cittadini più facoltosi sponsorizzano i giochi con ricchi premi per status, vanità o per credenza. In effetti, per quanto questo sport ancestrale sia lontano dai nostri canoni le dinamiche tra giocatori, squadre e villaggi avversari sono le stesse dei nostri sport, con una sola grande differenza: nel Kok Boru tutto quello che accade in campo finisce lì. Gli spettatori tifano, i giocatori giocano e come scriveva Leopardi in Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, poesia che narra il cammino di un pastore kirghiso:

Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.

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