Dedicato a tutti coloro che stanno scappando
Con questa dedica si conclude Mediterraneo, il terzo film della “Tetralogia della fuga” di Gabriele Salvatores. La storia è ben nota: durante la seconda guerra mondiale otto militari vengono mandati su una piccola isola del mar Egeo, Megisti, per una missione “O.C.”, Osservazione e Controllo. L’isola, apparentemente deserta, è abitata solo da donne, anziani e bambini scampati alla deportazione nazista con i quali i soldati iniziano a fraternizzare. Il tempo passa e i militari dimenticano la guerra che sembra così lontana, preferendo la vita di ozi e piaceri che l’isola fornisce. Il film offre una metafora sul significato del tempo e sul concetto di casa. Per tre anni i soldati vivono felici sull’isola ignari di quello che sta accadendo nel mondo. Sono talmente immersi in quel contesto bucolico che pian piano perdono ogni desiderio di ritornare in Italia. Addirittura, uno di loro (Farina) decide di disertare e rimanere nascosto su quell’isola quando gli inglesi nel 1943 li vanno a recuperare.
Su Megisti questi otto, estraniati dal mondo, vivono un’illusione di pace, amore e tranquillità in cui la vita scorre facile senza tempo. Eppure non tutto quello che si sono portati da casa è dimenticato. C’è in loro ancora un elemento di quell’Italia che si ripresenta nel film e nelle loro vite come una routine, un’abitudine alla quale nessuno può e vuole rinunciare: la partita di calcio.
È l’ultimo legame con la propria terra, con la loro vita prima dell’arruolamento quando erano insegnati, allevatori, maestri di sci e disoccupati. Per questo annulla ogni gerarchia e rende ancor più familiare quell’isola e la sua gente che il mondo in guerra sembra aver dimenticato.
Non è la prima volta che Salvatores usa l’espediente della partita di calcio per evidenziare l’evoluzione dei propri personaggi. In Marrakech Express, il primo film della tetralogia, la partita di calcio è il momento di massima vicinanza tra i protagonisti ed è la scintilla che riporta alla luce vecchie amicizie. La pellicola racconta la vicenda di un gruppo di amici che parte alla volta del Marocco per cercare di andare a tirare fuori dai guai Rudy, un amico che ha bisogno di soldi per risolvere un problema con la giustizia marocchina. Grazie alla partita di calcio giocata nel deserto, sulle note della Leva calcistica del ‘68 di De Gregori, il gruppo riacquista un momento di gioia. Il recupero del tubo in cui sono nascosti i soldi per Rudy è il recupero della speranza e della fiducia. Così il gruppo scanzonato e malinconico diventa consapevole dei propri fallimenti, ma anche di come quel momento rappresenti un nuovo inizio della loro amicizia, sancito dalla frase di Marco: “oh ragazzi quando torniamo rimettiamo insieme la squadra eh?“
Salvatores disegna delle commedie corali dal sapore amaro in cui nessun personaggio è davvero buono o cattivo e da cui si possono trarre diverse morali o interpretazioni. I protagonisti hanno, per citare il tenente Montini di Mediterraneo: “tutti più o meno quell’età in cui non hai ancora deciso se metter su famiglia o perderti per il mondo“. Ed è interessante notare come in questi due film la partita di calcio rappresenti il momento di massima inclusione e fratellanza dei personaggi. Un parallelismo che si può ritrovare anche in alcuni film più recenti come I sogni segreti di Walter Mitty del 2013, remake del film Sogni Proibiti del 1947. Anche nel film di Ben Stiller la partita di calcio è il momento per una riflessione su ciò che si è.
Certe volte non scatto, se mi piace il momento, piace a me, a me soltanto, non amo avere la distrazione dell’obiettivo, voglio solo restarci, dentro”, dice Sean Penn in una delle ultime scene. Un invito a non aspettare, a godersi quello che capita, come una partita di calcio al tramontar del sole.
Ma se per Salvatores e Stiller la partita di calcio è una metafora per amplificare e accentuare il non detto delle loro opere, per altri è un elemento chiave della trama dall’alto valore simbolico. L’esempio più interessante è quello di Timbuktu, film del 2014 diretto dal regista mauritano Abderrahmane Sissako. In un villaggio nei pressi di Timbuctù, l’arrivo di un gruppo di jihadisti sconvolge la vita degli abitanti del posto. Con l’intento di imporre a tutti i costi la Shari’a (la “Legge”) questi vietano tra le altre cose il calcio, bollandolo come “peccato” e punendo chiunque infranga il divieto. Tra i vari tentativi più o meno riusciti di infrangere la nuova legge, il più significativo è quello messo in piedi da alcuni ragazzi nel campetto di sabbia del villaggio: simulano una partita di calcio. Corrono, tirano, si passano la palla tutto senza un pallone, solo con l’immaginazione. E quando due jihadisti in motocicletta arrivano in perlustrazione non possono far altro che guardare inermi quei ragazzi che deposte le movenze da calciatori proseguono con degli esercizi ginnici.
Questa scena non può che far ritornare alla mente quella di Mery per sempre, film di Marco Risi del 1989. Seppur in un contesto diverso – qui siamo nel carcere minorile “Malaspina” di Palermo – la metafora del calcio è sempre la stessa: libertà.
Anche nel film di Risi, i ragazzi, vedendosi sequestrare il pallone, non demordono e simulano la partitella. Un atto, come anche quello dei ragazzi di Timbuktu, nel suo piccolo rivoluzionario perché sottintende la più sediziosa delle idee: con l’immaginazione l’uomo è sempre libero di fuggire. O in altre parole, per citare Henri Laborit:
In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare.