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Trump gioca a golf. L’economia mondiale brucia.

Mentre Donald Trump passava il fine settimana a giocare a golf in Florida, l’economia globale ha iniziato a sentire il contraccolpo delle sue nuove tariffe commerciali. Colpendo indiscriminatamente Paesi come la Cina, il Giappone, l’Unione Europea e perfino le isole Falkland, le misure hanno avuto un effetto immediato: aziende come Jaguar Land Rover hanno sospeso le spedizioni verso gli Stati Uniti, mentre la Howmet Aerospace – fornitore di parti per Boeing e Airbus – ha dichiarato che potrebbe interrompere la produzione destinata al mercato americano.

I mercati non hanno tardato a reagire. A Wall Street, le azioni sono crollate di circa il 10% in due giorni. L’indice VIX, che misura la volatilità attesa, ha toccato livelli che non si vedevano dai giorni più turbolenti della pandemia. La Federal Reserve ha lanciato l’allarme: le tariffe sono “significativamente più ampie del previsto“, ha dichiarato il presidente Jerome Powell, avvertendo che l’economia andrà incontro a un’inflazione più alta e a una crescita più lenta. In parallelo, JPMorgan Chase ha aggiornato le sue previsioni, anticipando una contrazione del PIL reale statunitense entro fine anno.

Ma la scossa non si è fermata ai confini americani. In Europa, le borse hanno seguito l’ondata ribassista: il DAX tedesco ha perso oltre il 7% in una settimana, il FTSE MIB di Milano è sceso di più del 6%. In Italia, le aziende manifatturiere, soprattutto quelle attive nell’export verso gli Stati Uniti, sono le più esposte. Il settore dell’automotive, in particolare, rischia un contraccolpo pesante. Con l’inflazione ancora sopra il 2% e margini di intervento ridotti per la BCE, gli economisti parlano apertamente del rischio di una nuova recessione tecnica entro la fine del 2025.

L'Italia esporta annualmente negli Stati Uniti merci per un valore di circa 67 miliardi di euro, mentre le importazioni dagli USA ammontano a circa 25 miliardi di euro, evidenziando un surplus commerciale significativo a favore dell'Italia. I settori maggiormente coinvolti includono i macchinari (13 miliardi di euro di export), gli articoli farmaceutici (13 miliardi di euro) e i mezzi di trasporto (8 miliardi di euro).

​L'introduzione di dazi del 25% sulle importazioni di automobili e componentistica da parte degli Stati Uniti colpisce direttamente l'industria automobilistica italiana, nota per la produzione di veicoli di alta gamma. Sebbene l'Italia non sia tra i principali esportatori di auto verso gli USA, esportando veicoli per un valore di 3,4 miliardi di euro all'anno, principalmente nel segmento del lusso, l'impatto su questo settore di nicchia potrebbe essere significativo. ​Le borse europee hanno risentito negativamente di queste tensioni commerciali. Il FTSE MIB di Milano ha registrato una flessione superiore al 6% nell'ultima settimana, riflettendo le preoccupazioni degli investitori riguardo alle prospettive economiche del Paese.

In risposta, il governo italiano ha annunciato un pacchetto di misure da 25 miliardi di euro a sostegno delle imprese colpite, mentre l'Unione Europea sta valutando contromisure adeguate per affrontare la situazione. ​A livello internazionale, la Commissione Europea ha preparato una lista di contromisure in risposta ai dazi imposti dagli USA, con un voto previsto per il 9 aprile e un'entrata in vigore il 15 aprile per la prima tranche. Circa 70 paesi hanno espresso la volontà di negoziare con gli Stati Uniti, evidenziando la portata globale delle tensioni commerciali in atto. ​

Questa crisi, tuttavia, non è piombata dal cielo. È stata costruita pezzo per pezzo, in modo deliberato. A differenza di quanto accaduto durante il suo primo mandato, in cui Trump aveva colpito con dazi mirati l’acciaio, l’alluminio e i prodotti cinesi, la nuova ondata di tariffe si basa su un calcolo astruso: si prende il surplus commerciale di un Paese verso gli Stati Uniti, lo si divide per il volume delle importazioni e si applica una percentuale arbitraria. Il tutto condito da simboli greci per conferirgli un’apparenza di scientificità. Il risultato è che anche Paesi poverissimi come il Lesotho, che ha un surplus solo perché i suoi cittadini non possono permettersi di comprare beni americani, si ritrovano colpiti da misure pensate per penalizzare le grandi potenze economiche.

Il paradosso è che Trump giustifica questi dazi come un modo per riportare la manifattura in America, ma i dati dicono altro. Molte delle merci soggette a tariffe sono in realtà componenti usate dalle stesse aziende americane. Aumentare il loro costo significa renderle meno competitive. Secondo uno studio della Federal Reserve, i dazi contro la Cina del 2018 hanno portato a una riduzione dell’1,4% dei posti di lavoro nel settore manifatturiero, anziché a un incremento.

Il problema, per gli investitori, non è solo economico. È anche psicologico. Dopo l’euforia dei mesi scorsi, quando si credeva che la presidenza Trump potesse dare nuovo slancio all’economia americana, oggi domina il rimorso. Il rally azionario post-elettorale si è trasformato in un bagno di sangue. E le prospettive non sono rosee. L’amministrazione sta tagliando i fondi alla ricerca scientifica, riducendo il sostegno alle energie rinnovabili, smantellando le politiche industriali costruite negli anni precedenti. Con la retorica del MAGA, si stanno minando le basi su cui poggiavano la competitività e l’innovazione americana.

Il danno è globale. I mercati emergenti, le economie più fragili, ma anche le potenze consolidate, come l’Europa e il Giappone, sono tutte coinvolte. Il modello di cooperazione economica internazionale costruito dopo la Seconda guerra mondiale – spesso imperfetto, ma efficace – viene ora sostituito da una logica di confronto permanente, da una visione in cui ogni surplus è una minaccia e ogni accordo commerciale è visto come una truffa.

In passato, crisi come la Brexit avevano mostrato quanto l’autolesionismo economico potesse essere costoso, ma almeno restavano confinati. Questa volta no. Gli Stati Uniti non sono un attore qualunque: sono stati per decenni il pilastro dell’economia globale. La scelta di Trump di abbandonare questo ruolo non è solo simbolica, ma ha già innescato una reazione a catena. Mentre i mercati crollano e la fiducia evapora, resta solo una certezza: in un mondo che si frammenta, tutti diventano più vulnerabili.

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