La storia ci insegna che, da sempre, le malattie hanno avuto un ruolo determinante nel plasmare il destino dell’umanità. E lo hanno fatto in due modi. Il primo è quello più evidente: la risposta consapevole dell’uomo, che porta allo sviluppo di farmaci e vaccini, e alla nascita di un sistema di welfare state capace di garantire cure e strutture ospedaliere. Il secondo è più silenzioso e si dispiega nel tempo: la selezione naturale di individui immuni alle diverse malattie infettive.
L’Europa è stata fin dall’inizio un laboratorio avanzato in questo senso, perché teatro di guerre, conquiste e spostamenti di massa, eventi che hanno messo a dura prova l’igiene e la salute pubblica, diventando terreno fertile per epidemie.
Prima del XVII secolo, le fonti storiche parlano spesso di peste, ma il termine era usato in modo generico, per indicare una vasta gamma di malattie. La famosa peste di Atene del 430 a.C., ad esempio, secondo gli storici moderni, potrebbe essere stata una grave forma influenzale, o forse il vaiolo, ma certamente non la peste bubbonica. Lo stesso vale per la cosiddetta “peste antonina”, che si diffuse nell’Impero Romano tra il 160 e il 180 d.C., provocando una mortalità tra il 10 e il 30%: molto probabilmente era vaiolo.
Più complessa è la storia della “peste di Giustiniano”, che esplose nel 542 d.C. e, si presume, arrivò dalla Cina. Colpì l’Europa fino al 750, uccidendo tra i 25 e i 50 milioni di persone.
Grazie alle analisi sul DNA antico, oggi la maggior parte degli studiosi ritiene che si trattasse di peste bubbonica: la stessa che nel 1347 divenne tristemente nota come la Peste Nera. Quest’ultima si protrasse fino al 1353 ed è stata considerata il prodotto di una “unificazione microbica del mondo“, ovvero della creazione di un mercato comune dei microbi. La Peste Nera, a differenza delle precedenti, non arrivò dall’Egitto, ma dalla Crimea, e si diffuse a partire dall’Asia centrale, attraverso l’impero dei Mongoli di Gengis Khan e dei suoi successori, che avevano unificato l’Asia e una parte dell’Europa orientale. Secondo le stime, provocò la morte di circa il 40-60% della popolazione europea, mediorientale e nordafricana: circa 50 milioni di persone. Con ogni probabilità, fu la peggior pandemia mai registrata.
Da queste traversie nacque un apparato immunitario europeo che dispiegò la propria letalità al momento della conquista del continente americano. Il vaiolo — portato dagli europei — ebbe effetti devastanti in Messico e nei Caraibi, ai quali si aggiunsero morbillo e tifo, per un totale di circa l’80% della popolazione amerinda falciata dai microbi europei. Tuttavia, alcuni studiosi sostengono che anche gli amerindi abbiano a loro volta infettato gli europei, contribuendo al trasferimento nel Vecchio Continente della sifilide.

È risaputo, inoltre, che i colonizzatori europei si scontrarono con la malaria in Africa e Asia fino alla scoperta del chinino nel 1906. Sebbene documentata già in Cina nel 2700 a.C., la malaria è ancora oggi una delle principali cause di morte in Africa, con circa 400.000 decessi l’anno. I suoi sintomi — anemia e apatia — sono stati per secoli confusi con stereotipi culturali, come l’idea dell’indolenza africana, che in realtà celano una verità epidemiologica. Anche il colera ha origini antichissime: si ipotizza fosse presente in Cina già nel 2500 a.C.
Nel XX secolo, l’umanità fu colpita da una nuova, devastante influenza: la “Spagnola“, così chiamata perché le prime notizie trapelarono nella Spagna neutrale, mentre negli altri Paesi, in piena Prima Guerra Mondiale, la censura impediva la diffusione di simili informazioni. Ma nonostante sia un evento relativamente recente e ben documentato, la spagnola resta ancora oggi un enigma, per tre motivi.
Il primo è l’elevata mortalità. Le stime variano da 17,5 a 50 milioni di morti in tutto il mondo. Solo in Italia, tra il 1918 e il 1919, le vittime furono circa 466.000, quasi quanto quelle della guerra. A differenza di altre pandemie, la Spagnola si confondeva facilmente con patologie respiratorie o cardiocircolatorie. Tra le vittime illustri, si ricordano Max Weber, Egon Schiele e Guillaume Apollinaire. Eppure la sua eco nei documenti politici, letterari e giornalistici è quasi impercettibile: ne sappiamo molto più grazie ai ricordi delle persone comuni che attraverso fonti politiche o giornalistiche.
Ciò, in parte, è dovuto al clima di guerra e alla propaganda nazionalista che favorì l’individuazione del nemico come untore responsabile del contagio: in Polonia si parlava di “malattia bolscevica“, in Brasile era “tedesca“, in Rhodesia “l’influenza dell’uomo bianco“, mentre i bianchi sudafricani la chiamavano “malattia dei neri“.
Non stupisce quindi che ancora oggi non esista una spiegazione certa sulla sua origine. Esistono tre ipotesi. La prima individua l’epicentro pandemico in Cina, dove i lavoratori impiegati dagli eserciti alleati avrebbero diffuso il contagio: il loro viaggio per mare, con scali a Singapore, Sudafrica e Canada, corrisponderebbe alla prima mappa dei contagi. La seconda ipotesi colloca l’inizio negli Stati Uniti, precisamente nel campo militare di Funston, in Kansas, dove nella primavera del 1918 si registrarono i primi casi. La terza coinvolge direttamente l’Europa, in particolare i campi militari di Étaples in Francia e Aldershot in Gran Bretagna, dove già alla fine del 1916 si verificarono casi di “bronchite purulenta” con volto cianotico.
Il secondo mistero riguarda la velocità di diffusione: tre ondate ravvicinate, tra il 1918 e il 1919, senza che nessuna generasse un apprezzabile livello di immunizzazione. La prima ondata, nell’estate del 1918, colpì il Nord Africa. Tra settembre e ottobre fu la volta dell’Europa, mentre una terza ondata si manifestò nei primi mesi del 1919.
La terza anomalia è l’età delle vittime: prevalentemente tra i 20 e i 40 anni. Un’anomalia già osservata all’epoca, poiché le normali influenze hanno una distribuzione a forma di U, colpendo soprattutto bambini e anziani, mentre nel biennio 1918-19, il 99% delle vittime non superava i 65 anni.
Ad aggravare il contagio furono anche le misure adottate dai governi: il distanziamento fisico venne applicato solo in alcuni luoghi, le scuole furono chiuse solo a livello locale, le mascherine chirurgiche consigliate ma poco usate. In alcuni molti Paesi, però, la pandemia spinse a rafforzare i sistemi sanitari nazionali.
Gli scienziati parlano di un’ “era pandemica”: dal 1918 in poi si sono susseguite diverse influenze globali (1957, 1968, 1977, 2009), tutte legate geneticamente alla spagnola.

L’influenza asiatica del 1957, originata in Cina (Guizhou), fu la prima a essere seguita dai media internazionali. Nel giro di pochi mesi, si diffuse da Singapore a Hong Kong, poi in India, nel Sud-est asiatico, in Australia, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Su scala mondiale, la stima della mortalità in eccesso nel biennio 1957-59 è di poco superiore al milione di vittime, con un tasso di letalità dello 0,6%, ma con grandi differenze legate allo sviluppo dei vari Paesi: in Gran Bretagna inferiore alla metà, in America Latina superiore al doppio. In Italia, nel 1957, si stimano 32.000 morti per influenza, ma è difficile distinguerle da quelle causate dalla normale influenza stagionale: l’inverno particolarmente rigido del 1956 provocò oltre 50.000 vittime.
Il risultato più significativo si ebbe nel 1958 con l’istituzione del Ministero della Sanità: fino ad allora, la materia era affidata a un Alto Commissario distaccato presso il Ministero dell’Interno. Dopo un decennio di modificazioni genetiche parziali, il virus del 1957 scomparve, lasciando spazio a un nuovo virus (H3N2) che nel 1968 si diffuse in tutto il mondo.
La pandemia del 1968 ebbe un impatto relativamente contenuto in termini di letalità, soprattutto se si considera che, rispetto al 1920, la popolazione mondiale era quasi raddoppiata (da 1,8 a 3,5 miliardi di persone). Questo contribuì a smontare l’idea secondo cui la globalizzazione e l’intensificarsi degli spostamenti umani porterebbero inevitabilmente a pandemie più gravi. Gli anni Settanta, infatti, furono segnati da un forte ottimismo nella ricerca scientifica: la diffusione dei vaccini contro il vaiolo e la poliomielite, insieme ai progressi nella lotta alla sifilide, alimentarono la convinzione che le malattie infettive fossero ormai un capitolo chiuso, e che fosse tempo di concentrarsi su quelle degenerative, come i tumori e le patologie cardiovascolari.
Una fiducia legata a un’idea di modernizzazione tipicamente occidentale, che però iniziò a vacillare con la crisi energetica del 1973.
Nel 1976, sulle rive del fiume Ebola, nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, emerse un nuovo virus letale, responsabile di febbri emorragiche con un tasso medio di mortalità del 50%. Provocò circa 15.000 morti, ma fortunatamente il decorso molto rapido della malattia — due settimane tra i primi sintomi e il decesso — ne rallentò la diffusione. Tant’è che il 25 giugno 2020, grazie ai progressi sui vaccini, l’OMS ha dichiarato conclusa l’emergenza.
All’inizio degli anni Ottanta, l’isolamento del virus HIV (Human Immunodeficiency Virus) scatenò una nuova emergenza globale. Si trattava di un virus di origine animale, proveniente dalle scimmie dell’Africa centrale, trasmissibile per via sessuale o attraverso lo scambio di sangue infetto. L’HIV provoca una sindrome — l’AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome) — che si manifesta nel tempo con il collasso del sistema immunitario e la comparsa di infezioni. In quarant’anni, l’AIDS ha colpito circa 40 milioni di persone nel mondo (la metà in Africa) e causato oltre 30 milioni di morti.
Alla fine degli anni Novanta, molti epidemiologi iniziarono ad avvertire che una nuova pandemia influenzale era solo questione di tempo. E infatti, nel 2002, arrivò la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), un coronavirus di origine animale — trasmesso dai pipistrelli — che causava gravi complicazioni polmonari. Era poco contagioso, ma molto letale (circa un morto ogni dieci contagiati).
Nel 2012 si manifestò una sua variante, la MERS (Middle East Respiratory Syndrome), limitata al Medio Oriente, ma con un tasso di letalità ancora più alto: il 30%. La loro diffusione fu limitata proprio perché troppo rapide nell’uccidere: virus così aggressivi non hanno il tempo di propagarsi su vasta scala.
Nel 2009, invece, il virus H1N1 si ricombinò passando dai suini agli esseri umani. Partì dagli USA e dal Messico, per poi diffondersi rapidamente in Gran Bretagna, Australia e oltre cento altri Paesi. Venne chiamata “influenza suina“. A differenza della SARS, la sua forza era nella capacità di diffondersi (si stima circa un miliardo di contagi), mentre la letalità fu molto più bassa: tra 150.000 e 500.000 decessi stimati, ma solo 18.000 ufficialmente accertati.
Questa esperienza contribuì a formalizzare modelli statistici e strategie di contenimento: distanziamento fisico, chiusura delle scuole, restrizioni ai viaggi, vaccinazioni di massa. È il frutto dell’esperienza maturata con la SARS, ma anche dell’attenzione che gli scienziati dedicano alla presenza endemica, soprattutto in Asia, del virus H5N1, responsabile della cosiddetta influenza aviaria, periodicamente contenuto tramite la soppressione di massa degli uccelli d’allevamento.
È importante sottolineare come, per storici come Jared Diamond, l’allevamento degli animali rappresenti una delle chiavi dello sviluppo nell’evoluzione delle diverse civiltà: i virus si collocano dunque nel punto di intersezione cruciale tra storia umana e storia ambientale.
Nel 2019, il SARS-CoV è tornato in una nuova versione genetica, ben diversa da quella del 2002: molto più contagiosa (33 milioni di casi già nell’ottobre 2020) ma con una letalità più contenuta (intorno al 3%).

Ma quale impatto hanno avuto storicamente le epidemie sull’economia?
È difficile dirlo con precisione. La diffusione irregolare delle malattie rende complicato individuare correlazioni certe. I tentativi di costruire modelli tra mortalità, calo del PIL e consumo sono ostacolati dalla sovrapposizione di eventi, come guerre o crisi politiche.
Tuttavia, alcuni effetti sono visibili: ad esempio, il “rimbalzo” economico che spesso segue le crisi epidemiche, con una crescita del reddito medio pro capite e un aumento delle nascite. Non si riscontra però una connessione chiara tra il numero di vittime e i fallimenti aziendali. Anche l’andamento dei mercati finanziari è spesso incoerente: durante la pandemia del 1918, ad esempio, i valori a Wall Street salirono, spinti dalla fine della guerra. Al contrario, durante la pandemia del 1957, si registrò un calo del 15%, recuperato solo nel 1958; mentre quella del 1968 vide un breve rialzo (+15%) seguito da un crollo del 40% l’anno successivo, legato alla guerra del Vietnam.
Sembra, insomma, che l’economia sia meno sensibile all’impatto delle malattie contagiose rispetto a quello delle guerre, anche perché, osservando i dati di lungo periodo relativi al reddito medio pro capite, è difficile notare una flessione significativa in corrispondenza delle maggiori epidemie: a conferma del fatto che l’economia risponde più alle proprie dinamiche interne che alle emergenze sanitarie.
E il Covid-19?
L’emergenza globale scoppiata nel 2020 non ha fatto altro che mettere in evidenza problemi già noti. Dal 1997 è attiva, sotto l’egida dell’OMS, la rete FluNet, con oltre 140 laboratori nel mondo dedicati al monitoraggio dei virus influenzali e alla ricerca sui vaccini. Ma, nonostante la condivisione di risorse e informazioni, la risposta al virus ha incontrato numerose difficoltà: mancanza di cure efficaci, interessi economici delle aziende farmaceutiche, limiti di bilancio nei Paesi più poveri.
Anche al netto delle risposte negazioniste di alcuni leader politici (Trump e Bolsonaro, su tutti), i diversi sistemi sanitari nazionali sono stati piegati dall’emergenza, evidenziando gravi carenze nelle strutture di terapia intensiva nei focolai più acuti. Del resto, l’esperienza storica insegna che le risposte istituzionali alle pandemie, dal 1918 a oggi, sono spesso lente e incerte.
Oltretutto anche l’OMS — che pure rappresenta un importante passo avanti rispetto al passato — resta un organismo influenzato dalle logiche politiche dei governi che lo compongono.
Una vera politica globale, capace di affrontare le grandi sfide del nostro tempo — non solo relative alle pandemie, ma anche a questioni ambientali, migratorie e finanziarie — è ancora tutta da costruire.