Tendiamo tutti a pensare che appartenere a una nazione sia qualcosa di naturale, quasi istintivo, come se le nazioni fossero entità primordiali e immutabili che hanno sempre fatto parte della storia umana. Nulla di più sbagliato. Il concetto stesso di nazione è piuttosto recente se consideriamo l’intera storia dell’uomo. È un’idea che si è affermata solo nel XIX secolo, quando i movimenti nazionalisti hanno iniziato a spingere per la creazione di Stati nazionali.
Origini e trasformazioni del concetto di nazione
Il termine natio ha origini latine e compare già nel mondo romano con significati molteplici. Derivato dal verbo nascor (nascere), esso indicava inizialmente un gruppo di individui legati da una comune nascita o discendenza. Ma questa appartenenza non implicava un’identità politica strutturata. Cicerone, ad esempio, usò il termine natio per designare la classe aristocratica (natio optimatium), ma anche per riferirsi a una scuola filosofica (natio epicureorum). In alcuni contesti, il termine veniva addirittura applicato alle razze animali, come testimonia Varrone nel De Re Rustica, in cui parla di nationes di bestiame. Nella maggior parte dei casi, però, il termine natio era utilizzato per indicare popolazioni, tribù o gruppi etnici privi di istituzioni comuni, in contrapposizione ai concetti di populus e civitas, che identificavano comunità politicamente organizzate. È in questo senso che Cicerone parla di “nationes servituti natae” (De provinciis consularibus) e Sallustio di “nationes ferae” (De Catilinae coniuratione), sottolineando la percezione dei popoli non romanizzati come gruppi privi di autonomia politica e, spesso, destinati alla sottomissione.
Nel Medioevo, il termine natio iniziò a evolversi, assumendo sfumature diverse rispetto all’uso classico, ma mantenendo prevalentemente un significato etnico, senza implicare però una chiara appartenenza politica. Isidoro di Siviglia, nel VII secolo, e Bernardo di Chiaravalle, nel XII, utilizzarono il termine per riferirsi rispettivamente ai barbari e ai musulmani, confermando un’accezione che distingueva gruppi su base culturale o religiosa piuttosto che politica. Nationes erano altresì, nel contesto accademico medievale, le corporazioni studentesche all’interno delle università; un criterio che si basava più sulla provenienza geografica degli studenti che su una reale unità politica. Un uso simile si riscontrò nel Concilio di Costanza (1414-1418), dove i gruppi di vescovi furono organizzati in nationes con diritto di voto, senza che questo implicasse un’identificazione con i moderni Stato-Nazioni. Dante e Machiavelli, spesso citati come precursori dell’idea di una nazione italiana, in realtà ebbero scarsa sensibilità al tema dell’unità nazionale. Il primo rimase fedele all’ideale dell’impero universale, mentre il secondo si concentrò quasi esclusivamente sulla politica e sullo Stato, senza sviluppare una visione moderna della nazione come entità politica autonoma.
A partire dal XVIII secolo, sulla spinta delle continue ricomposizioni territoriali, linguistiche e culturali, guidate da grandi dinastie, e dalla ridefinizione degli equilibri geopolitici, alcune nazioni assunsero contorni più definiti e un ruolo politico più strutturato. Un processo già delineato all’inizio dell’età moderna, quando in Francia, Inghilterra e Spagna la formazione dello Stato territoriale avvenne parallelamente alla progressiva erosione dei particolarismi locali e alla perdita di potere delle istituzioni universali come il papato e l’Impero. Furono soprattutto i grandi conflitti di carattere nazionale a determinare questa trasformazione: la lunga guerra di Spagna contro i musulmani e la guerra dei Cent’anni tra Inghilterra e Francia furono eventi chiave nella costruzione delle rispettive identità nazionali.
Diverso fu il caso di quei territori dove mancava un’autorità dinastica forte e orientata alla costruzione di uno Stato unitario, come in Germania, Italia e nell’Europa centro-orientale. In queste aree, la coscienza nazionale si sviluppò prevalentemente attraverso processi culturali e linguistici, secondo il modello della nazione culturale. Nel mondo tedesco, la riscoperta della Germania di Tacito nel 1455 e, successivamente, la Riforma protestante con la traduzione luterana della Bibbia furono elementi determinanti per il consolidamento di un’identità tedesca. Analogamente, in Italia la formazione di una lingua letteraria attraverso le opere di Dante, Petrarca, Boccaccio e Machiavelli, unita alla grande stagione del Rinascimento, contribuì a forgiare un senso di appartenenza comune. Ma questi sentimenti nazionali rimasero fragili sia tra le masse sia tra le élite intellettuali e politiche. L’indifferenza o persino l’avversione nei confronti dell’idea di nazione da parte di pensatori come Leibniz, Lessing e Schiller ne sono una testimonianza significativa. La nazione restava un concetto sfumato, spesso subordinato a ideali di stampo universalista o dinastico.
La svolta si determinò a cavallo della Rivoluzione francese, quando la nazione assunse un nuovo statuto, destinato a incidere profondamente e in modo irreversibile sulla storia politica e culturale dei secoli successivi. A partire da questo momento, essa divenne un veicolo potentissimo di identificazione collettiva e un fattore propulsivo di trasformazione storica. Da un lato, si affermò il modello della nazione di cittadini, fondato sulla partecipazione politica attiva e sull’eguaglianza giuridica, e dall’altro quello della nazione in armi, incarnato dallo Stato napoleonico, che mobilitava il popolo nella difesa e diffusione della nuova identità nazionale. Ciò portò all’affermazione del carattere naturale della nazione che fu tipica del Romanticismo; in base ad essa la cultura ottocentesca accreditò un’immagine del proprio secolo ad insegna di una rinascita delle Nazioni da attuare con la costruzione di Stati nazionali. Il fatto che ancora oggi questo senso comune, che lega l’esistenza di una nazione a un territorio soggetto alla sovranità di un solo Stato, persiste pervicacemente è segno della forza e penetrazione di quelle idee.
Nel corso del XIX secolo, poi, la nazione divenne obiettivo delle lotte per l’indipendenza e l’autodeterminazione delle nazionalità oppresse in Europa, specialmente in contesti segnati dalla Restaurazione, come nei casi emblematici di Italia e Germania, dove la costruzione di nuovi Stati nazionali si sviluppò come risposta a una lunga frammentazione politico-territoriale. La nazione emerse altresì come forza dissolutiva degli imperi sovranazionali, in particolare di quello asburgico e ottomano, la cui crisi e disgregazione vennero accelerate dalle spinte centrifughe dei nazionalismi interni.
Nel corso della seconda metà del Novecento, l’idea di nazione ha finito per costituire anche un ostacolo, spesso latente ma persistente, ai progetti di integrazione sovranazionale. Ne sono esempio le difficoltà incontrate dal processo di costruzione europea, sia nella sua fase comunitaria sia in quella successiva dell’Unione Europea, dove le spinte identitarie nazionali hanno sovente contrastato le prospettive federaliste. Infine, nel panorama post-Guerra fredda, la nazione è tornata a giocare un ruolo cruciale nella ristrutturazione della carta geopolitica dell’Europa centro-orientale. La fine del bipolarismo mondiale e la dissoluzione dell’impero sovietico hanno riattivato – in forme nuove ma non meno incisive – le dinamiche di affermazione e rivendicazione nazionale, contribuendo a ridisegnare confini, identità e appartenenze in un contesto segnato da una profonda instabilità politica e culturale.
La nazione tra volontà politica e determinismo culturale
Come accennato sopra, l’idea che la nazione sia un’entità naturale, quasi organica, è una costruzione storicamente situata, la cui genesi può essere rintracciata nella cultura romantica del XIX secolo, e in particolare nel pensiero di Johann Gottfried Herder. Questi concepiva la nazione come una comunità spirituale e culturale, fondata su legami di lingua, tradizioni e costumi condivisi. Ma la nazione non è concetto univoco. Essa può fondarsi tanto su presupposti oggettivi (lingua, religione, etnia, storia), quanto su elementi soggettivi e volontaristici. A Herder si contrappose infatti la posizione di Jean-Jacques Rousseau, secondo cui la nazione è un prodotto della volontà generale. Un concetto ripreso anche da Giuseppe Mazzini, che nel suo appello Ai giovani d’Italia del 1859, affermava con chiarezza che: “La Patria è prima di ogni altra cosa la coscienza della patria” – sostenendo che senza tale consapevolezza gli Italiani sarebbero stati “turba senza nome, non Nazione; gente, non popolo“. Allo stesso modo, Pasquale Stanislao Mancini, nella sua prolusione del 1851 Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti, sottolineava che la comunanza di lingua, territorio e origine non basta a definire una nazione se non è accompagnata da una coscienza collettiva. Il punto più avanzato di questa visione soggettivistica si trova nella celebre conferenza del 1882 di Ernest Renan, Qu’est-ce qu’une nation? (Che cos’è una nazione?), dove la nazione è definita come “una grande solidarietà, un plebiscito di tutti i giorni“, ossia una scelta quotidiana condivisa da una collettività desiderosa di vivere insieme.
Da qui nasce anche il dualismo tra due modelli di appartenenza nazionale: da un lato lo ius sanguinis, affermato dalla tradizione romantica, che individua l’origine della nazione in una comunità etnico-culturale ereditaria, dall’altro lo ius soli, che fonda l’identità nazionale sul rapporto storico tra cittadini, istituzioni e territorio, secondo un principio contrattualistico che richiama la libera adesione alla comunità politica.
In questa cornice teorica, la distinzione tra patriottismo e nazionalismo diventa fondamentale. Sebbene i due concetti vengano talvolta usati come sinonimi, essi indicano esperienze e valori profondamente differenti. Il patriottismo si riferisce all’amore per la patria, intesa come comunità politica fondata sulla legge e sulla virtù civile. È un sentimento eminentemente politico, radicato nella tradizione del repubblicanesimo civico, da Machiavelli ai Padri fondatori americani. Il patriottismo è amore per il buon governo, per la libertà condivisa, per l’interesse generale. È, come si è detto in tempi recenti, un “patriottismo costituzionale”, fondato su principi universali di diritto e partecipazione democratica.
Il nazionalismo, al contrario, si fonda su un’idea esclusiva, spesso etnica e gerarchica, di appartenenza. È l’ideologia dell’"egoismo nazionale", come lo definisce la storiografia più accreditata, che si esprime in visioni di superiorità e in pretese di espansione ai danni di altri popoli. Se il patriottismo può convivere con il pluralismo e la democrazia, il nazionalismo tende alla chiusura, all’intolleranza e, nei casi estremi, alla sopraffazione. Non a caso, i teorici del patriottismo – da Rousseau a Mazzini – hanno spesso preso le distanze dal nazionalismo, mentre gli ideologi nazionalisti – da Treitschke a Hitler – hanno denigrato il patriottismo come espressione debole o borghese.
John Stuart Mill, nel capitolo XVI delle Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), individuò le “fonti del sentimento nazionale” in un insieme di fattori:
Qualche volta […] l’effetto di identità di razza e di spirito; sovente comunità di linguaggio e di religione […]. I limiti geografici sono pure una delle sue fonti; ma la sorgente più viva è l’identità del progresso politico, il possesso di una storia nazionale e, di conseguenza, di una comunità di ricordi. Ma nessuna di queste circostanze è indispensabile o sufficiente per se stessa in senso assoluto.
Una riflessione affine si ritrova in Friedrich Meinecke (Cosmopolitismo e Stato nazionale, 1907), secondo cui “le Nazioni sono grandi e possenti comunità di vita sorte attraverso un lungo processo storico e sottoposte a movimenti e mutamenti ininterrotti“. Meinecke riconosce una “natura fluida” della nazione: sedi comuni, sangue misto, lingua e vita spirituale condivisa, e federazioni politiche possono essere elementi essenziali di una nazione, ma nessuno di essi è, di per sé, sufficiente o necessario.
Ciò rende arduo ogni tentativo di determinare in modo definitivo e generale la “natura delle Nazioni”, spingendo talvolta verso posizioni relativistiche, come nel caso delle riflessioni incompiute che Max Weber dedicò alla nazione in Economia e società (1922). Ma il carattere storico delle nazioni non ne esclude la possibilità di costituire una categoria omogenea di relazioni sociali. Giambattista Vico, in un contesto ben diverso, parlava già nel Settecento di una “comune natura delle nazioni“, ponendo l’accento sull’universalità del processo storico e antropologico che porta i popoli a costituirsi in comunità simboliche, spirituali e politiche, pur riconoscendo che ogni nazione possiede caratteristiche rigorosamente individuali.
Questa complessità si rivela, ad esempio, nel confronto tra l’idea politica di nazione proposta dall’abate Sieyès – “un corpo di associati che vivono sotto una legge comune, rappresentati dalla stessa legislatura” – e la visione razziale e naturalistica di Adolf Hitler, per il quale “la nazione, o più precisamente la razza, non consiste nella lingua, ma soltanto nel sangue“. Tra queste due definizioni non c’è continuità, ma una rottura di fondo: esse rappresentano due modelli inconciliabili.
Un concetto superato?
Come già accennato, le nazioni moderne si formano soprattutto a partire dall’epoca rivoluzionaria. Da allora, però, si è anche verificato un fenomeno apparentemente paradossale: queste nuove nazioni, benché storicamente recenti, tendono quasi sempre a costruire narrazioni che le radicano in un passato remoto. Ma si tratta di una rivendicazione legittima? Possiamo davvero considerare come momenti fondativi delle nazioni odierne eventi come la vittoria di Arminio nella selva di Teutoburgo (9 d.C.), la resistenza di Vercingetorige ad Alesia (52 a.C.), il giuramento di Strasburgo (842), Giovanna d’Arco o la traduzione della Bibbia di Lutero?
La risposta di Ernest Gellner (1983) è netta: le nazioni e i nazionalismi sono prodotti moderni, nati dal passaggio a una società industriale orientata alla crescita. In tal senso, essi rappresentano soluzioni funzionali alla necessità di mobilitare masse alfabetizzate, socialmente omogenee e integrate politicamente. Già Weber aveva intuito che le categorie etniche di “stirpe” o “popolo” sono spesso il frutto di una costruzione politica, elaborata da élite dominanti per rafforzare la coesione sociale e legittimare il potere.
Karl Popper, in linea con questa impostazione critica, definì il principio di autodeterminazione nazionale come “assolutamente assurdo”, poiché implica che ogni Stato debba coincidere con una comunità etnica definita da confini naturali, una condizione che – osserva con lucidità – non si verifica praticamente mai:
L’assoluta assurdità del principio dell’autodeterminazione nazionale deve essere palese a chiunque si sforzi anche solo per un momento di criticarlo. Tale principio equivale all’esigenza che ogni Stato sia uno Stato nazionale, che sia limitato da un confine naturale, e che questo coincida con la a dimora di un gruppo etnico, sicché dovrebbe essere il gruppo etnico, la ‘nazione’ a determinare e a proteggere i confini naturali dello Stato. Ma degli Stati nazionali di questo genere non esistono.
“La storia del nostro tempo, visione di un ottimista” (Sesta Eleanor Rathbone Memorial Lecture, Università di Bristol, 12 ottobre 1956)
In effetti, il nodo centrale attorno al quale si articola la riflessione sul concetto di nazione riguarda la sua natura costitutivamente ambigua e fluida. È proprio questa ambivalenza, come già rilevato da Meinecke e Weber, a rendere tanto complessa una sua definizione univoca: la nazione, pur rivendicando la propria origine nella storia, non si lascia mai racchiudere in una storia unica o in una forma oggettiva. Non esiste un insieme fisso e necessario di condizioni per cui un collettivo umano possa dirsi nazione. Le stesse categorie identitarie – lingua, religione, etnia, territorio, cultura – appaiono costantemente rinegoziate, costruite e spesso strumentalizzate.
In tale contesto, risulta evidente che la nazione non esiste prima della coscienza nazionale, ed è proprio questa coscienza – costruita, condivisa, diffusa – a far esistere la nazione. È in questa dialettica – tra ius sanguinis e ius soli, tra identità ereditaria e scelta consapevole – che si colloca tutta la modernità del pensiero nazionale. Questa tensione tra identità collettiva e pluralismo reale è la fonte dei conflitti contemporanei: dall’Irlanda del Nord alla ex Jugoslavia, dal Medio Oriente all’Ucraina, la sovrapposizione fra nazione e Stato ha spesso prodotto violenza, esclusione, espulsioni e guerre. La nazione, allora, è più spesso un progetto che una realtà, un’aspirazione e non una condizione.
Eppure, nonostante tutto, il concetto di nazione conserva un’enorme forza simbolica e politica. In un mondo globalizzato e interconnesso, l’identità nazionale sembra paradossalmente rafforzarsi: le sfide dell’immigrazione, le crisi delle democrazie liberali, la frammentazione geopolitica e il ritorno dei confini stanno rilanciando una retorica identitaria fondata sulla nazione come ultimo baluardo della sovranità e della sicurezza. Ma è proprio in questo scenario che la domanda torna con forza: ha ancora senso parlare di nazione? E se sì, in quali termini? Come entità giuridica? Come costruzione culturale? Come comunità immaginata? O forse, più semplicemente, come bisogno umano di appartenenza, oggi rideclinabile in forme nuove e post-statuali?
Come ha scritto Hobsbawm: “Non sono le nazioni a fare gli Stati e a forgiare il nazionalismo, bensì il contrario“. Eppure, proprio perché è una costruzione umana, la nazione può essere ripensata, ridefinita, messa in discussione. E forse anche superata.