A cavallo tra marzo e aprile del 1964, il Brasile visse un colpo di Stato orchestrato dalle forze armate che, con il sostegno di alcuni governatori e degli Stati Uniti, pose fine al governo democratico del presidente João Goulart. Accusato di simpatie comuniste e di voler trasformare il Paese in una seconda Cuba, Goulart venne deposto senza che venisse sparato un solo colpo in sua difesa. Iniziò così una dittatura militare che sarebbe durata ben 21 anni, caratterizzata da repressione, censura e la sparizione di migliaia di oppositori politici, inclusi più di 8.000 indigeni dell’Amazzonia.
Il percorso che portò al colpo di Stato ebbe origine anni prima. João Goulart, vicepresidente eletto nel 1960 al fianco di Jânio Quadros, divenne presidente in circostanze complesse. Quadros, pur avendo vinto le elezioni con quasi il 50% dei voti, si inimicò presto l’establishment brasiliano a causa delle sue posizioni ambigue: simpatizzava per Fidel Castro, onorava Che Guevara e cercava di riprendere i rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica. Questa linea politica preoccupava i settori più conservatori del Brasile e, dopo appena sette mesi, Quadros si dimise, lasciando il Paese in una profonda crisi politica e sociale. Quando Goulart avrebbe dovuto assumere la presidenza, si trovava in Cina per un incontro con Mao Zedong. Al suo ritorno, trovò il clima politico completamente mutato: le forze armate, insieme a banchieri, latifondisti e una parte significativa della borghesia urbana, si opponevano fermamente al suo insediamento. Per superare l’impasse, il Congresso accettò un compromesso, trasformando il sistema politico da presidenziale a parlamentare, limitando così i poteri di Goulart. Ma nel 1963 un referendum ripristinò il presidenzialismo con l’80% dei consensi, restituendo al neo presidente pieni poteri.
Con il sostegno popolare, il Goulart avviò ambiziose riforme: la redistribuzione delle terre con una riforma agraria, la nazionalizzazione delle compagnie petrolifere e il rafforzamento dei diritti sindacali. Il suo celebre discorso del 13 marzo 1964, di fronte a 100.000 persone a Rio de Janeiro, in cui annunciava pubblicamente queste riforme, allarmò le élite e gli Stati Uniti. In piena Guerra Fredda, Washington vedeva ogni spostamento a sinistra in America Latina come una minaccia, temendo un “effetto domino” dopo la rivoluzione cubana. Il presidente Lyndon Johnson autorizzò persino l’operazione Brother Sam, che prevedeva l’invio di navi e aerei verso le coste brasiliane per supportare eventuali operazioni militari contro il governo.
La notte tra il 31 marzo e il 1° aprile 1964, i carri armati iniziarono a muoversi. L’esercito, con il supporto di alcuni governatori e settori civili conservatori, marciò verso Brasilia e Rio de Janeiro. Le forze armate rimaste fedeli al governo erano inizialmente numerose, ma in breve tempo molti reparti passarono dalla parte dei golpisti. Per evitare una guerra civile, Goulart decise di non resistere e fuggì in Uruguay. Il 3 aprile, il Congresso dichiarò la presidenza vacante e il 15 aprile il maresciallo Humberto de Alencar Castelo Branco assunse la carica di presidente.
Con l’ascesa di Castelo Branco, iniziò un periodo di repressione feroce. I partiti politici furono sciolti e sostituiti da due entità controllate dal regime: l’ARENA (partito filogovernativo) e il MDB (un’opposizione fantoccia). Furono censurati i media, vietati gli scioperi e limitate le libertà civili. Il governo promulgò leggi che garantivano al presidente poteri straordinari e introdusse una politica di repressione sistematica contro oppositori politici, sindacalisti, studenti e chiunque fosse sospettato di attività sovversive. Migliaia di persone furono torturate, arrestate o “scomparse”.
Io sono ancora qui – la trama
Rio de Janeiro, 1970. Una donna nuota nell’oceano. In sottofondo, le pale degli elicotteri sorvolano la città. Lei è Eunice Facciolla Paiva, moglie di Rubens Paiva, un ingegnere ed ex deputato per il Partito Laburista Brasiliano esiliato nel 1964 e rientrato in Brasile mesi dopo, dove si era ritirato a vita privata. I due conducono una vita serena e appagante, insieme ai loro cinque figli, in un elegante appartamento vicino alla spiaggia. Nella loro vita quotidiana, fatta di feste con gli amici, compleanni sulla spiaggia, risate e balli la dittatura sembra distante. I loro figli vivono liberi di seguire le loro passioni: il cinema di Antonioni, il raggae di Bob Marley, la musica dei Beatles, di Gainsbourg, Veloso e Gilberto Gil. Si respira complicità tra marito e moglie, e la spensieratezza ed euforia di una famiglia con 5 figli. Eppure la dittatura c’è e pian piano inizia a farsi sentire. I loro amici editori, soffocati della censura, fuggono a Londra; posti di blocco della polizia si formano per le vie trafficate della città; le notizie di attacchi terroristici e repressioni si affollano nei giornali e in televisione; e strani pacchi e chiamate arrivano a casa e nell’ufficio di Rubens.
Poi una domenica, degli uomini armati bussano alla loro porta. Alcuni portano via Rubens, altri restano in casa. È l’ultima volta che Eunice vede il marito. Il giorno dopo anche lei viene portata in caserma per essere interrogata. Per cinque giorni rimane chiusa in una cella buia senza contatto con l’esterno. I militari vogliono risposte sull’attività del marito. Di chi sono quei pacchi che arrivavano a casa sua, di chi le chiamate durante la notte. Lei non parla. In effetti, non sta capendo perché i militari ce l’abbiano con lei e suo marito. Ma uscita dal carcere, gli amici le raccontano tutto: Rubens non stava partecipando alla resistenza armata, ma aiutava i famigliari delle persone scomparse a ricevere loro notizie. Da quel momento per la famiglia Paiva tutto cambia. La scomparsa del marito, la mancanza di soldi, l’insicurezza di vivere pedinati dagli uomini del DOI-CODI, l’agenzia di intelligence e repressione politica, costringono Eunice a trasferirsi da alcuni parenti a San Paolo, dove riprende gli studi in Giurisprudenza e dove diventa, tra mille difficoltà, una voce instancabile nella lotta per i diritti umani e la memoria delle vittime della dittatura.

L’estetica e il romanzo
Il film di Walter Selles è tratto dal romanzo omonimo di Marcelo Rubens Pavia, figlio di Eunice e Rubens, scritto quando la madre si ammalò di Alzheimer. Aveva 11 anni quando il padre venne arrestato, torturato e ucciso. Un trauma che lo marchiò per sempre, ma non fu l’unico. A vent’anni, la sua vita fu segnata da un secondo trauma. Durante una caduta accidentale in un lago, si fratturò la quinta vertebra cervicale, rimanendo tetraplegico. Da lì l’inizio di una lunga e dolorosa battaglia, fatta di fisioterapia estenuante e momenti di disperazione. Ma riuscì nel corso degli anni a recuperare parzialmente l’uso delle mani e delle braccia. Da questa esperienza di dolore e resilienza nacque il suo primo romanzo, Feliz Ano Velho, pubblicato nel 1981. Il libro racconta senza filtri la sua lotta personale contro le limitazioni fisiche e psicologiche imposte dall’incidente. Con una scrittura intensa e sincera, affronta temi come la perdita, la rinascita e il senso di identità. L’opera ebbe un impatto enorme sul pubblico brasiliano, diventando rapidamente un classico nazionale, tradotto in numerose lingue e vincitore di diversi premi letterari.
A gennaio di quest’anno, Marcelo ha pubblicato Io sono ancora qui. Sempre con il suo stile limpido, a volte crudo, a volte ironico, il figlio di Eunice e Rubens racconta tutto quello che accadde alla sua famiglia a partire da quei fatidici giorni del 1971.
Quando ho letto per la prima volta Io sono ancora qui mi sono commosso profondamente. L’esperienza di Eunice Paiva è sia una storia di sopravvivenza al lutto che lo specchio di una nazione ferita.
Walter Salles
Dodici anni dopo il poco convincente On the Road, Walter Salles torna al lungometraggio, ritrovando la forza narrativa e l’intensità emotiva che avevano reso memorabile I diari della motocicletta. Questa volta, Salles opta per uno stile classico e convenzionale, ma riesce comunque a colpire nel profondo, offrendo un racconto toccante e carico di significato, pur trattando un tema che il cinema ha già esplorato ampiamente. Il segreto di questa riuscita? La componente personale che permea l’intero film: all’epoca dei fatti narrati, la famiglia Salles era vicina di casa dei Paiva; il che ha reso questa storia non solo una cronaca politica ma anche un ricordo intimo e sentito.
Dal punto di vista estetico, la pellicola è un gioiello di narrazione visiva: la macchina da presa si muove in modo irregolare quando esplora le memorie intime dei personaggi, mentre si fa più stabile e fredda per raccontare la brutalità dello Stato. I colori vivaci e caldi della prima parte del film, che mostrano la serenità della famiglia prima dell’intervento violento del regime, si spengono in tonalità scure quando la barbarie irrompe nelle loro vite. Solo alla fine, i colori tornano, ma con sfumature grigie, segno di un’esistenza che non potrà mai più essere come prima. Uno spettro cromatico scandito anche dalla colonna sonora. Le canzoni di Caetano Veloso e Gilberto Gil – simboli della resistenza al regime – risuonano nei momenti di libertà e spensieratezza, mentre le note di Roberto Carlos, artista allineato al potere, fanno da sfondo alle scene di repressione e silenzio forzato.
Ma il vero punto di forza della pellicola è l’eccezionale interpretazione di Fernanda Torres nel ruolo di Eunice Paiva. Torres incarna perfettamente il dolore, la resilienza e il coraggio di una donna che, pur devastata dalla perdita, trova la forza di lottare per i suoi figli e per la verità. La sua interpretazione non è passata inosservata: già vincitrice di un Golden Globe come miglior attrice in un film drammatico, è ora in lizza per l’Oscar come miglior attrice protagonista. E secondo molti, potrebbe sorprendere tutti superando la favorita Demi Moore.
Io sono ancora qui è un film sentito, impegnato e capace di scuotere le coscienze, soprattutto nella sua parte centrale, dove la tensione raggiunge picchi emotivi altissimi. Salles riesce a trasmettere non solo la brutalità della repressione politica, ma anche le piccole grandi vittorie della resistenza quotidiana, mettendo in luce come la forza umana emerga nei momenti più bui.
Il film ha ricevuto ampi consensi anche dalla critica internazionale. Presentato in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Io sono ancora qui ha conquistato il premio per la miglior sceneggiatura. Il film è stato anche selezionato per due delle categorie più ambite agli Oscar: è nella cinquina dei migliori film internazionali e rientra addirittura nella lista dei dieci titoli in corsa per la statuetta per il Miglior Film.
Io sono ancora qui è un’opera che parla di memoria, perdita e resistenza. È la storia di una donna e di una famiglia, ma anche di un intero Paese che lotta per non dimenticare. Salles ci regala un film profondo e commovente, capace di rimanere nel cuore dello spettatore molto dopo la fine dei titoli di coda. E in un’epoca in cui la memoria storica rischia di sbiadire, film come questo sono più importanti che mai.