In un’epoca in cui alcuni eventi impongono il divieto dei telefoni per garantire un’esperienza più immersiva, il successo del nuovo formato della Champions League è stato invece immortalato da delle immagini tanto significative quanto anacronistiche: giocatori dell’Aston Villa e del Club Brugge ammassati attorno a un cellulare, ansiosi di conoscere i risultati di Barcellona e Zagabria per capire se sarebbero entrati tra le prime otto o almeno ai play-off. Scene che ci hanno rimandato indietro nel tempo, quando con delle vecchie radio incollate alle orecchie si attendavano ansiosi gli aggiornamenti passati di bocca in bocca tra applausi e imprecazioni. Un’atmosfera che, secondo alcuni, mancava nella vecchia fase a gironi e che il nuovo sistema sembra aver restituito. Evviva!

L’ampia approvazione del nuovo formato ha ricordato la famosa battuta di Harry Lime ne Il terzo uomo: “In Svizzera avevano amore fraterno, 500 anni di democrazia e pace, e cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù“. Lime forse non sarebbe stato così sprezzante se avesse saputo che il modello svizzero sarebbe stato alla base della nuova Champions League. Ma, a parte il vantaggio economico per club, broadcaster e UEFA stessa, questa riforma ha davvero funzionato?
Uno dei punti di forza propagandati dalla UEFA era la maggiore “drammaticità” del torneo, grazie alla lotta serrata per le posizioni. Ma è stato davvero così?
Prendiamo Atalanta e Milan, che hanno mancato l’accesso diretto agli ottavi: la loro “punizione” è giocare due partite di spareggio. Ma è davvero una penalità? I tifosi vogliono vedere più partite di Champions, quindi in realtà si tratta di un bonus, più che di una penalità. Gli unici a non esserne entusiasti sono stati la società, per la perdita di circa 15 milioni (il valore dell’accesso diretto agli ottavi), e l’allenatore, che dovrà gestire il calendario congestionato. Nella parte alta della classifica, invece, club come il Liverpool hanno potuto risparmiarsi un turno supplementare senza faticare troppo. Dall’altro lato, nove squadre erano già eliminate prima dell’ultima giornata, mentre molte altre sapevano già di essere qualificate, rendendo la serata finale meno incerta di quanto si potesse sperare.
Il vero dramma è nato dalla coincidenza tra l’introduzione del nuovo formato e l’unica stagione, nei 17 anni di carriera da allenatore di Pep Guardiola, in cui la sua squadra sta faticando. Alla fine, però, l’ampliamento della fase iniziale da sei a otto partite ha concesso ai grandi club, come il Manchester City appunto, abbastanza margine per tirarsi fuori dai guai. In passato, 10 o 11 punti erano sufficienti per qualificarsi agli ottavi; oggi, con due partite in più, squadre come il City, lo Sporting e il Brugge hanno raggiunto i play-off con 11 punti. Più partite, ma meno selettività: dov’è il vero progresso?
Anche i i criteri di qualificazione agli ottavi non sono stati soddisfacenti: la Dinamo Zagabria, pur avendo battuto il Milan, è rimasta fuori dai play-off per differenza reti. Ma è giusto usare questo criterio quando le squadre affrontano avversari diversi? Il nuovo format ha aumentato la varietà, ridotto la monotonia e suscitato curiosità. Ma solleva un’altra questione: se tutti non giocano contro tutti, le classifiche possono sembrare astratte e prive di equità. E ancora, se la UEFA Champions League non richiede più la tradizionale formula casa-trasferta, cosa vieta di giocare partite a New York o Riyad?
Non dimentichiamo che il peccato originale dell’adozione di questo format è stata la minaccia della Super League. Ma, a ben vedere, questa nuova Champions League, se da un lato è più inclusiva e garantisce più entrate ai club, dall’altro l’introduzione del turno di play-off a 16 squadre ha permesso di avere all’élite dei club una rete di sicurezza dall’eliminazione e dalla discesa nella meno redditizia e più faticosa Europa League, come negli anni precedenti.
Quindi, la domanda resta: questo nuovo formato è davvero un miglioramento?