nazionale USA basket

Quanto il team USA è adatto alle Olimpiadi?

Poco prima dell’inizio dei Giochi di Parigi 2024, Nike ha lanciato la sua grande campagna pubblicitaria olimpica. Di solito, questi spot sono splendidi elogi all’ambizione, all’impegno e all’eccellenza: ideali olimpici venduti a un vasto pubblico, con titoli come Unlimited You e Find Your Greatness. Ma questa volta è diverso. Sulle note della Nona Sinfonia di Beethoven e narrato da Willem Dafoe, lo spot estremizza il concetto della vittoria non come un obiettivo collettivo, ma come un traguardo personale. Se vincere è l’unica cosa che conta, “Am I bad person?” ripete Dafoe. Non esistono medaglie d’argento o di bronzo. Bisogna arrivare primi. E non è semplice, perché “VINCERE NON È PER TUTTI”.

WINNING ISN’T FOR EVERYONE | AM I A BAD PERSON? | NIKE

Ciò che colpisce davvero dello spot non è la visione che presenta, ma il fatto che celebri quella posizione per le Olimpiadi. Ai Giochi, la sofferenza non è un segno di qualche patologia, ma un percorso verso la trascendenza. Lo sport è un’educazione morale, plasmata simultaneamente dai limiti e dalla libertà di osare, che richiede in egual misura talento e impegno. È evidente come questo spot stoni con il credo olimpionico de “l’importante non è vincere ma partecipare“. Il conflitto tra queste due filosofie è una delle tensioni sottostanti questi Giochi, ed è forse ancora più evidente nell’aura che circonda il Team USA di basket.

Il Dream Team del 1992 è il metro di paragone con cui tutte le successive selezioni statunitensi si sono confrontate, e che tutte inesorabilmente non riescono a eguagliare. Quella squadra vinse ogni partita con una media di quasi quarantaquattro punti di scarto. Aveva Larry Bird, Charles Barkley, Magic Johnson. E soprattutto, aveva Michael Jordan, che portò alle Olimpiadi un nuovo pubblico. Portò Nike. Jordan era già una superstar globale; le Olimpiadi lo resero un’icona. Fu una vittoria per tutti. L’amatorismo era morto, se mai fosse realmente esistito. Jordan era un vincente e uno ossessionato. Creò un prototipo di campione valido ancora oggi. Dopo di lui venne Kobe Bryant, che proprio da Jordan forgiò la sua competitività maniacale; ed oggi ogni giocatore NBA parla di voler far rivivere lo spirito di Black Mamba e la sua spietatezza.

Si dice spesso che il compito più importante di un allenatore sia gestire l’ego dei suoi giocatori. È già abbastanza difficile in una squadra NBA normale, cosa dire del Team USA, una squadra quasi completamente composta da All Star? C’è LeBron James, l’ambasciatore mondiale di questo sport, che gioca davanti (e contro) persone che sono cresciute sognando di vederlo di persona. C’è anche Anthony Edwards, che ha ventidue anni e si è dichiarato la “prima opzione” della squadra, senza dimenticare Joel Embiid, MVP NBA che ha recentemente annunciato che probabilmente sarebbe stato il miglior giocatore della storia se non fosse stato per la sfortuna con gli infortuni, e Jayson Tatum, neo campione con i Celtics, che nella partita di esordio contro la Serbia non ha nemmeno giocato. E poi Kevin Durant, Stephen Curry e così via…

Steve Kerr, l’allenatore della squadra, ha anche lui un ego considerevole: non sopravvivi a un pugno da Michael Jordan senza averne uno. Ma sa anche come gestire grandi ego, ed è una delle ragioni principali per cui gli è stato affidato l’incarico. Gli Stati Uniti potrebbero avere il roster più profondo e talentuoso della storia. Dei dodici giocatori, ci sono undici All-Star, quattro MVP e sei campioni NBA. Un roster con un salario collettivo di circa mezzo miliardo di dollari. Quando si tratta di potere delle star, nessun’altra squadra nei Giochi di quest’anno è nella stessa galassia. Il Giappone ha un solo cestista NBA e molti giocatori non raggiungono i due metri d’altezza; il Sud Sudan ha giocatori talentuosi e determinati, ma non ha un singolo campo al coperto in tutto il Paese, secondo l’ala Wenyen Gabriel; e la Francia ha perso contro la Germania di Dennis Schröder. Ma il lavoro di Kerr è più difficile di quanto sembri. Innanzitutto, ci sono le aspettative: se vince l’oro ha semplicemente fatto il suo dovere; se dovesse fallire andrebbe incontro ad una disfatta che lo marchierà a vita. Poi c’è la questione di far adattare i giocatori, che sono tutti abituati a essere titolari e protagonisti delle loro squadre, in ruoli diversi. E il divario tra gli Stati Uniti e il resto del mondo si è ridotto da anni. Ora il miglior giocatore del mondo non è degli Stati Uniti.

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Il Dream Team del 1992, pur essendo composto da superstar, ha saputo adattarsi e fare le necessarie rotazioni durante il suo percorso olimpico, utilizzando sei diverse formazioni di partenza in sei partite. L’unico giocatore sempre titolare era Jordan. Questo esempio è emblematico dell’equilibrio che Kerr deve cercare di raggiungere con la sua squadra. Ma, mentre il Dream Team giocava in un’epoca in cui il dominio degli Stati Uniti nel basket era indiscusso, oggi il panorama è cambiato. L’evoluzione del basket mondiale ha visto emergere talenti da ogni angolo del Pianeta. Giocatori come Luka Dončić, Nikola Jokić e Giannis Antetokounmpo hanno dimostrato che il dominio americano non è più scontato. Questa diversificazione del talento ha reso le competizioni internazionali molto più competitive e ha ridotto il gap che una volta esisteva tra gli Stati Uniti e il resto del mondo.

Il Dream Team del 1992 ha svolto un ruolo cruciale in questa evoluzione, esportando il basket NBA a livello globale. Ora, i giocatori internazionali non solo partecipano alla NBA, ma ne diventano protagonisti. Questo ha cambiato il panorama delle competizioni olimpiche, rendendo ogni partita una vera sfida per il Team USA. Ma la vera sfida non è solo una questione di talento, ma di mentalità e coesione. Riuscire a far convivere e collaborare giocatori di così alto calibro richiede una leadership forte e una visione chiara. Steve Kerr e il suo staff devono lavorare instancabilmente per costruire una squadra che non solo vinca, ma lo faccia in modo che rispecchi i valori olimpici di rispetto, impegno e spirito di squadra.

Alla fine, la vera misura del successo del Team USA non sarà solo la medaglia d’oro, ma come arriveranno a conquistarla. La capacità di adattarsi allo spirito olimpico, di rispettare gli avversari e di giocare come una squadra unita saranno i veri indicatori del loro successo. Le Olimpiadi non sono solo una competizione, ma una celebrazione dello sport e dei suoi valori più nobili. Riuscire a incarnare questi ideali sarà la sfida più grande per la nazionale USA.

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