L’hipster è amorale, anarchico, gentile e civilizzato al punto da essere decadente. Si trova sempre dieci passi avanti rispetto agli altri grazie alla sua coscienza. Conosce l’ipocrisia della burocrazia e l’odio implicito nelle religioni, quindi che valori gli restano a parte attraversare l’esistenza evitando il dolore, controllando le emozioni e mostrandosi cool?
Jazz: a History – Frank Tirro
Dagli anni 2010 la moda hipster ha trovato un nuovo entusiasmo, grazie soprattutto ad app come Yelp, Foursquare e Instagram che, in base ai propri gusti, elencavano luoghi in linea con quella nuova estetica. Digitando “caffetteria hipster”, venivano fuori locali che avevano sposato tutti lo stesso stile: abbondante luce naturale attraverso grandi finestre, spesso recuperate da ex locali industriali; enormi tavoli in legno; un interno luminoso con pareti dipinte di bianco o con mattoni a vista; e wifi gratuito per rimanere lì tutto il giorno. Naturalmente, anche il caffè vero e proprio contava, e in questi luoghi potevi essere certo di prendere un cappuccino preparato tra diverse varietà di latte, tra cui gli immancabili alla soia e alle mandorle. Il più impegnato tra i caffè offriva anche il flat white (una variante del cappuccino, tipico dell’Australia e della Nuova Zelanda) e il sempre verde avocado toast, che negli anni Dieci è diventato sinonimo delle preferenze alimentari dei millennial. Questi locali avevano tutti adottato un’estetica simile sia nell’arredo che nel menu, in maniera totalmente organica, senza nessuna costrizione. Nonostante la loro dispersione geografica e la totale indipendenza l’uno dall’altro, i caffè avevano sposato lo stesso gusto. Si trattava di sforzi locali che venivano spesso descritti come “autentici”, ma in una visione globale di autentico non avevano nulla. Seppur separati tra di loro, erano connessi dalla nuova geografica digitale: soddisfavano quei parametri che alimentavano i feed algoritmici dei social media.
Nel 2016 Kyle Chayka ha coniato il termine AirSpace per descrivere quella geografia stranamente priva di attriti creata dalle piattaforme digitali, in cui era possibile spostarsi da un luogo all’altro senza allontanarsi dai confini di un’app o uscire da quell’idea di stile. La crescita di Instagram ha dato ai proprietari di questi locali la possibilità di seguirsi l’un l’altro in tempo reale e gradualmente, tramite raccomandazioni algoritmiche, iniziare a consumare lo stesso tipo di contenuti. Il gusto personale si è pian piano spostato verso ciò che piaceva anche agli altri, per poi omologarsi. Per corteggiare l’ampia fascia demografica di clienti plasmata dai social, sempre più caffetterie hanno adottato l’estetica che dominava su quelle piattaforme. Adattarsi alla norma non significava semplicemente seguire le tendenze, ma prendere una decisione aziendale che i consumatori premiavano. Quando un locale era visivamente abbastanza gradevole, i clienti si sentivano incoraggiati a pubblicarlo sul proprio Instagram per vantarsi dello stile di vita; ciò forniva pubblicità gratuita e, quindi, nuovi clienti, in un circolo vizioso ancora in corso.
La fenomenologia di questo processo è ancora più radicale perché autopoietica. Come tutte le mode, anche questa verso la fine degli anni Dieci sembrava in declino. Gli arredi total white, che iniziavano a sembrare troppo cliché, vennero sostituiti da piastrelle di ceramica dai colori vivaci, che ricordavano gli azulejos portoghesi; lo stile grezzo dell’era della crisi finanziaria, con i suoi mobili industriali riproposti, lasciò il posto ad un attento modernismo scandinavo. In altre parole, guidata sempre dai gusti proposti da Instagram e dal nascente TikTok, si stava reinventando. Gli elementi di stile si sono rivelati meno importanti dell’omogeneità, che è diventata sempre più radicata. I segni sono cambiati, evolvendosi un passo alla volta nel corso degli anni, ma l’identità è rimasta la stessa. In un saggio del 2020 la scrittrice Molly Fischer l’ha etichettata l’estetica millenaria; abbracciata anche da startup come WeWork e The Wing, la Fischer si chiedeva: “L’estetica millenaria finirà mai?“
Sarita Pillay Gonzalez, un’accademica sudafricana, ha notato questa omologazione estetica a Cape Town alla fine degli anni Dieci, quando lavorava presso un’organizzazione di ricerca sull’urbanistica. Gonzalez la vedeva come una forma di gentrificazione, o addirittura un’eco del colonialismo in un Paese postcoloniale.
L’ironia di tutto ciò è che questi luoghi dovrebbero rappresentare spazi per esaltare l’individualità, ma sono incredibilmente monotoni.
Sarita Pillay Gonzalez
Nel 2005, l’editorialista del New York Times, Thomas Friedman, ha scosso tutti con la pubblicazione del saggio The World Is Flat. Il mondo piatto significava che le persone, i beni e le idee fluivano attraverso lo spazio fisico più velocemente e più facilmente che mai. Tra le varie forze che stavano appiattendo il Pianeta, Friedman includeva anche la tecnologia digitale, rea di aver creato “una rete commerciale globale più fluida […] e ha contribuito ad abbattere il regionalismo globale“. Non solo le industrie e le economie venivano appiattite nel nuovo ordine globalizzato, ma anche la cultura tendeva in quella direzione. Il Web esercitava una pressione alla condivisione e collegava gli individui a livello microscopico nello stesso modo in cui venivano collegati paesi e aziende. I social network sono venuti alla ribalta solo negli anni successivi al libro di Friedman, ma hanno accelerato questa tendenza.
Per più di un decennio prima di The World Is Flat, teorici, come il sociologo spagnolo Manuel Castells, stavano già descrivendo come la globalizzazione generava uniformità e monotonia. Nel 1992, l’etnologo francese Marc Augé scrisse un libro intitolato Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità. I nonluoghi erano quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati da individui simili ma soli. Nonluoghi sono le stazioni e gli aeroporti, i supermercati e le grandi catene alberghiere con le loro camere intercambiabili. Nonluoghi sono spazi transitori impersonali che non ci appartengono, ma che viviamo continuamente, giorno dopo giorno. Oggi potremmo dire che i nonluoghi sono anche tutti quei bar e caffetterie che si sono appiattiti per seguire l’estetica dell’algoritmo. Un’estetica vuota perché priva di rischio, ma alimentata da quello che propongono loro i social feed.
Spivak aveva ragione nel dire che “La globalizzazione avviene solo nel capitale e nei dati“. Ciò che realmente scorre in tutto il Pianeta sono varie forme di denaro e informazioni: investimenti e dati combinati di tutti le piattaforme digitali, che si riversano invisibilmente tra le nazioni come il vento. Noi utenti abbiamo volontariamente pompato le nostre informazioni in questo sistema, trasformando noi stessi in merci fluenti. L’omogeneizzazione di questi luoghi è dunque una conseguenza di cambiamenti avvenuti molto prima che gli algoritmi dei social si alimentassero, ma in loro hanno trovato un’accelerazione fino ad allora non prevista. Ed ora, è altrettanto probabile che questi cambiamenti si intensificheranno in futuro. Dopotutto, il mondo in qualche modo trova sempre il modo di diventare ancora più appiattito.