barcellona camp nou
Foto: Cristina Aldehuela e Jordi Perdigo

Barça, més que un club?

il 7 maggio 1986 è una data che difficilmente i tifosi del Barcellona dimenticheranno. Quella sera la squadra catalana affrontava la Steaua Bucarest nella finale della Coppa Campioni. L’entusiasmo era alle stelle, primo perché la Steaua era una squadra priva di blasone internazionale e secondo perché la partita si sarebbe giocata a Siviglia, in uno stadio pieno zeppo di tifosi blaugrana. I catalani erano così convinti della vittoria che già dal giorno prima per la città erano comparsi adesivi e manifesti con la scritta “Campioni”. Nessuno quindi immaginava quanto sarebbe successo: dopo aver preso quattro pali, il Barcellona perse ai rigori. Essere tifosi del Barça si riassume tutto in questo episodio; significa essere sussiegosi, mostrare un’infondata superiorità verso gli altri e ritrovarsi poi, miserevolmente delusi. 

Qualche decade fa lo scrittore Montalbán definì il Barcellona “l’esercito disarmato della Catalogna“; in pratica, poteva non avere uno Stato, ma aveva un club che era una nazione. Del resto, Barcellona è nell’immaginario di molti La Rosa de foc, La rosa di fuoco, che sottolinea il suo fervore sociale, culturale e politico, nonché il suo animo vivace e combattivo. Per un certo periodo Barcellona è stata la città spagnola simbolo dell’integrazione e l’ultima parvenza di democrazia in uno stato dittatoriale. Ancora oggi il Barça si vende come il club più democratico al mondo, forte dei suoi oltre 140mila soci, di cui circa 110mila votano alle elezioni per eleggere il presidente. Ma se si scava a fondo, si scopre che il club è un’oligarchia in cui comandano le solite dinastie familiari della borghesia catalana. Durante i periodi bui della recessione e del franchismo le nobili famiglie catalane investivano nella società per opporsi al governo centrale, con contributi economici che superavano il 60% (mentre oggi è dieci volte inferiore). Laddove la società repubblicana clandestina non riusciva a combattere la dittatura con la resistenza politica, ci riusciva sul campo con la divisa blaugrana, sfindando l’incarnazione del potere centrale: il Real Madrid. Barcellona è resistenza. Resistenza, prima di tutto contro la dittatura. Dei duecentomila spagnoli uccisi dal caudillo, uno dei primi fu Josep Sunyol, giustiziato il 6 agosto del 1936. Era il presidente del Barcellona, club che in quegli anni aveva organizzato persino una tournée in Sud America per ottenere fondi per la causa repubblicana. 

barcellona camp nou
Foto: Cristina Aldehuela e Jordi Perdigo

Come disse Narcis de Carreras durante la sua candidatura alle elezioni del 1968, il Barcellona è “més que un club“. Una frase che è diventata un marchio. All’epoca il club era abituato più alle sconfitte che alle vittorie e quel “més” era più che altro il tentativo di giustificare il proprio fallimento. Ma poi, ad un certo punto della sua storia, ecco che la squadra blaugrana ha iniziato a vincere. E lo fece dopo quella sciagurata finale del 1986. Lo fece grazie a un uomo: Johan Cruyff. Occhiali Ray-ban da aviatore, impermeabile chiaro alla Philip Marlowe, capello alla Alain Delon e un’autostima che non aveva limiti, il messia del calcio totale era ritornato a Barcellona come allenatore dopo il celebre Ammutinamento di Hesperia. L’olandese portava con sé la sua, più che mai attuale, idea di calcio che si poteva tradurre in quello che disse negli spogliatoi prima della finale, poi vinta, di Coppa Campioni del 1992: “andate e divertitevi“. Cruyff portò modernità in un una città e in un Paese fermo a vent’anni prima. I suoi aforismi sul calcio, pronunciati in uno spagnolo al limite del cubismo, erano, per citare lo scrittore Miqui Otero: “haiku involontari […] si nutrono dell’idea di calcio totale (i giocatori si muovono tutti insieme come in una danza, si scambiano di posizione, generano superiorità numeriche con triangolazioni, usano l’attacco come migliore forma di difesa)“.

L’olandese sposò in pieno l’essenza catalana al punto da essere il primo a chiamare suo figlio Jordi (santo patrono della Catalogna) dopo molti anni in cui la dittatura permetteva di usare solo Jorge, il corrispettivo castigliano. Gira una leggenda intorno a Cruyff. Pare che al suo arrivo strappò dal muro il foglio nel quale era indicata l’altezza minima per gli aspiranti ragazzi che volevano partecipare ai provini. Senza questo gesto i culer (così vengono chiamati i tifosi del Barcellona) non avrebbero potuto ammirare Messi, Iniesta, Xavi e oggi Pedri e Gavi. È difficile spiegare come le proporzioni, abbiamo un peso anche nel calcio. Ma per i culer il calcio è una forma d’arte; dagli spalti, hanno scoperto, successo dopo successo, un altro criterio per giudicare la vittoria: il fascino. Dalla rivoluzione olandese i catalani hanno mostrato vanità spacciandola per umiltà e presunzione vestendola da modestia. Le vittorie, il bel gioco, la maglia senza sponsor o con il logo UNICEF, e le divise prodotte dalla Meyba, un’azienda catalana, hanno fatto credere ai tifosi blugranata di essere moralmente superiori. Ma più si vola in alto più la caduta fa rumore. Così ecco oggi una squadra sommersa dai debiti che per ripagarli ha ipotecato il proprio futuro, dirigenti indagati e arrestati, diffamazioni ai danni dei suoi stessi giocatori e trame degne di una spy story. Il Barcellona sembra aver perso quello spirito di positività, quella bellezza che fino a qualche anno fa lo avevano reso davvero més que un club. Eppure, c’è ancora luce.

Il XXI secolo è il secolo delle donne e a Barcellona il 30 marzo 2022 si è capito perché. Quel giorno al Camp Nou erano presenti 91.553 spettatori; non per vedere il Barça maschile, ma per i quarti di finale della Champions League femminile tra la squadra catalana e il Real Madrid. Fino a qualche anno fa era impensabile che il team femminile giocasse al Camp Nou, ora non solo fa il tutto esaurito ma vince anche quello che la selezione maschile perde. Il nuovo idolo non è più Messi o Pedri, ma una ragazza con la coda: Alexia Putellas, già Pallone d’oro nel 2021.

alexia putellas
Alexia Putellas

Alexia e le sue compagne sono tutto quello che i loro colleghi maschi per apatia o vincoli legali e commerciali non sono. Non hanno paura di esporsi politicamente, supportano le comunità lgbtq+ e aiutano le comunità delle minoranze, come quella per i diritti delle atlete africane. Il loro idolo si chiama Inmaculada Cabeceràn, la quale durante l’oscurantismo misogino franchista riuscì senza l’aiuto di nessun membro del club a creare la prima selezione femminile blaugrana di calcio. Queste giocatrici sono tutto quello che vorremmo che fossero i nostri idoli: vincenti, empatiche e senza la paura di schierarsi. Sono il cambiamento positivo che tanto bene fa ad un movimento che ha il disperato bisogno di una rivoluzione. Non solo nella Rambla, ma in tutta Europa.

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