“Niente tornerà come prima del Covid”, la cantilena straziante, ripetuta dagli improvvisati profeti appena liberatisi dal loro difficoltoso ruolo di commissario tecnico della nazionale, rischia con nostra somma disgrazia di avverarsi. Disgrazia perché assisteremo ad una serie infinita di “Io lo avevo capito”, “Cosa ti avevo detto?”, “Visto?”, ma se questo servisse un po’ a migliorare il mondo dovremmo accettare questa condanna come il minore dei mali possibili.
A cambiare decisamente fino ad ora é stato lo sport americano già da mesi attraversato dalle contestazioni del Black Lives Matter che proprio nell’odioso virus ha trovato un inaspettato complice per cambiare la propria immagine. Se prima la polemica ha travolto i nomi delle squadre di football ora si registra il primo caso nella storia del NBA di sciopero per ragioni sociali e politiche.
L’interruzione del NBA, resasi necessaria per salvaguardare la salute di giocatori e tifosi come in tutti gli sport del mondo, ha imposto una ripartenza con altre condizioni logistiche. La famosa “bolla” é stata l’occasione per portare l’NBA a Disneyland, circoscrivendo in maniera stretta allenatori, giocatori e staff nel parco a tema di Orlando nel tentativo appunto di controllare e monitorare la salute degli addetti ai lavori pur permettendo di portare a termine i playoff.
Per la prima volta i giocatori si sono trovati tutti nello stesso luogo per un lungo periodo di tempo, potendo scambiarsi idee e opinioni sul contesto sociale. Ovviamente essendo la maggior parte dei giocatori di origine afro-americana le discussioni sono cadute soprattutto sulle rivendicazioni della popolazione di colore. Il confronto, la vicinanza, lo scoprirsi (fa un po’ ridere, ma é così) lavoratori della stessa classe sociale ha permesso alle stelle del basket di prendere una posizione comune rispetto all’uccisione di Jacob Blake e ancora prima di George Floyd, dove fino ad ora c’erano state solo posizioni individuali come quella di LeBron James.
Il blocco iniziale, poi trasformatosi in posticipo dei playoff, voluto fortemente dai Milwaukee Bucks e appoggiato da tutta l’NBA, é stata una mossa storica in cui per la prima volta l’intera categoria del basket americano ha preso a maggioranza una decisione forte che poteva trasformarsi in un vero fulmine nel cielo a stelle e strisce. Facile immaginare quali sarebbero state le ricadute dell’annullamento dei playoff (posizione più estrema voluta solo dai Lakers) sia a livello economico che politico. Non a caso Donald Trump ha subito sentito di dover prendere posizione sulla vicenda, archiviando la faccenda come una trovata pubblicitaria per la fama in calo dell’ NBA.
Ma é proprio in questo stallo intercorso tra mercoledì e giovedì scorso che si inserisce un noto attore della politica americana: Barack Obama. L’ex presidente degli Stati Uniti ha da subito appoggiato ed elogiato l’iniziativa dei giocatori, ma nella serata del 26 agosto é andato oltre suggerendo addirittura una strategia d’azione. Mercoledì infatti Barak Obama ha avuto un colloquio telefonico con LeBron James e Chris Paul, in cui l’ex inquilino della Casa Bianca ha suggerito di trasformare la protesta in un proposta: dal blocco dei playoff alla costruzione di un soggetto sociale e politico nuovo che porti avanti le istanze del Black Lives Matter.
La proposta di Obama é stata quella di creare un’associazione, una piattaforma che si preoccupi di toccare i temi del razzismo, del rispetto dei diritti civili, della convivenza pacifica, guidata proprio dalle grandi star del basket e dalla loro popolarità. Obama ha bloccato lo sciopero e per questo qualcuno ha criticato questa posizione, accusando l’ex Presidente di aver spaccato il muro del dissenso, ma la posizione oltranzista di non chiudere l’anno sportivo a quali conseguenze avrebbe portato?
Se Kushner (genero e consigliere anziano del presidente degli Stati Uniti) aveva già schernito la posizione di blocco con un paradosso, dichiarando che vista la popolarità dell’NBA anche in Cina non capiva perché i giocatori non facessero uno sciopero anche per quelle violazioni dei diritti, possiamo solo immaginare quale campagna denigratoria sarebbe partita contro gli stessi giocatori colpevoli di guadagnare cifre stellari. La posizione suggerita da Obama, per quanto appaia cerchiobottista, toglie benzina dalla macchina del fango dell’amministrazione Trump, riportando la posizione dei giocatori di basket in una normale attività sociale di cittadini preoccupati per l’escalation di violenza che sta vivendo la loro nazione.
Ricordiamo sempre quanto sia pericoloso “fare politica” negli Stati Uniti dove attori, musicisti, sportivi hanno pagato a caro prezzo le proprie posizioni pubbliche. Per questo appare particolarmente oculata la posizione di Obama in cui da un lato si portano avanti le proprie istanze e dall’altro si apre a tutta la società la possibilità di dialogare con le stelle delle sport su temi fondamentali per una nazione. Un ritorno a pieno titolo all’agorà in cui essere ricchi o famosi non é un motivo per rimanere esclusi dalle contestazioni sociali, anzi diventa un megafono per far breccia nell’opinione pubblica americana.