MLB, la sigla che sta per Major League Baseball, può essere letta al contrario come BLM. Il management della più importante lega professionistica di baseball non poteva non accorgersene e, prontamente, ha fatto realizzare per l’Opening Day del 22 e 23 luglio un logo speciale per celebrare e supportare i traguardi raggiunti dal movimento Black Lives Matter. Prima delle prime partite della stagione tutti i giocatori si sono inginocchiati lungo le linee che delimitano il campo di gioco (le “linee di foul”) stringendo tra le mani un lungo nastro nero. Alcuni atleti, e tra questi anche Mookie Betts, fresco di prolungamento contrattuale con i Los Angeles Dodgers (12 anni per 365 milioni di dollari) e solo quattro anni fa contrario a questo tipo di protesta, sono rimasti in ginocchio anche durante l’esecuzione dell’inno nazionale americano. La vera notizia, al di là delle cerimonie commemorative, è che chi non si è alzato per l’inno The Star Spangled Banner non è stato punito disciplinarmente né dalla Lega né dalle singole franchigie appartenenza.
È caduta la prima pedina
Certo, nei forum degli appassionati c’è chi continua rumorosamente a chiedere che la politica venga lasciata fuori dallo sport (come se le discipline sportive non fossero, in realtà, una parte fondamentale del vivere comune), ma è l’atteggiamento “illuminato” dei vertici della Lega a stupire maggiormente. E quindi, come si è arrivati a questa presa di posizione apparentemente così liberal, specie se si pensa che il baseball è sempre stato un baluardo del conservatorismo tradizionale ed un rifugio quasi inattaccabile, in epoca più remota, per segregazionisti e fautori del trattamento differenziato? In realtà occorre considerare come l’attesa svolta in casa MLB sia arrivata solo ora, nel corso di questo disgraziatissimo 2020 e al culmine delle battaglie ingaggiate dai movimenti per la tutela dei diritti civili dei cittadini afroamericani e, più in generale, in seguito alla presa di coscienza di una fetta sempre più grande della popolazione bianca americana. Non solo, questa palese e sostanziale apertura dei vertici del baseball professionale arriva dopo la riabilitazione sociale (tuttavia non ancora completa sul piano agonistico) dell’ex quarterback dei San Francisco 49ers, Colin Kaepernick, l’atleta che per primo si è inginocchiato durante l’esecuzione dell’inno e che ha pagato, sportivamente parlando, l’assurdo prezzo dell’essere di fatto inserito in una lista di proscrizione decisa dai proprietari delle squadre della NFL nonostante il suo indiscusso valore tecnico ed atletico. Il “ripensamento” della MLB arriva (anche per una questione di calendario, va detto) perfino dopo i gesti inclusivi dei protagonisti di sport motoristici quali la NASCAR, “valvola di sfogo” preferita dai white suprematists e dagli amanti della bandiera confederata, e la Formula 1, costoso giocattolo oltremodo snob e prestigioso che è stato per anni gestito con discutibile competenza dal secondogenito dell’epigone britannico di Hitler e Mussolini.
È caduta la prima pedina, questo è certo, e l’effetto domino che ne è seguito è stato vasto e veloce. Qualcuno dirà che “è questione di soldi” e che è stato fondamentale il deciso cambio di rotta delle Big Corporations che hanno minacciato, nemmeno troppo velatamente, di fare saltare sponsorizzazioni e partnership miliardarie (ne sa qualcosa il “Washington Football Team” che ha finalmente deciso di abbandonare lo storico nickname col quale si è identificato sin dalla fondazione). Si dirà che i vertici delle leghe professionistiche e le proprietà delle singole franchigie si sono piegate a mere esigenze di mercato, ma intanto un passo in avanti, anche se per motivi non del tutto nobili, è stato fatto. I giocatori di baseball afroamericani sono finalmente liberi di manifestare la propria vicinanza ad una causa a loro cara senza il timore di perdere il lavoro o di subire improvvisi deragliamenti di carriera.
Oggi, a metà 2020, un atleta nero può inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno nazionale senza avere il timore di essere sottoposto ad un indebito scrutinio da parte di compagni, allenatori, dirigenti e giornalisti come invece accadde solamente tre anni fa al catcher degli Oakland Athletic’s Bruce Maxwell che, attualmente, gioca in Messico e si ritiene ancora ostracizzato per motivi politici dal baseball delle leghe maggiori. Parliamo della libertà sostanziale di un atleta nero di esprimere il proprio pensiero a gesti e a parole e della sua libertà di richiedere il rispetto dei diritti civili per sé e per la sua famiglia.
Uno sport per bianchi?
Tuttavia, non resta che chiedersi come sia stato possibile che il National Pastime – che oggi in apparenza sembra così inclusivo e multietnico – sia stato così lento nel recepire i cambiamenti sociali in corso. La risposta è semplice: il baseball è l’America, nel bene e nel male. In particolare, il baseball è l’America tradizionale, quella dei valori famigliari, quella rurale degli Stati interni, quella del film L’uomo dei sogni, quella della torta di mele messa a raffreddare sul davanzale e quella del corn dog alle Fiere di Stato agricole.
Il baseball è l’America, nel bene e nel male. In particolare, il baseball è l’America tradizionale, quella dei valori famigliari, quella rurale degli Stati interni, quella del film L’uomo dei sogni, quella della torta di mele messa a raffreddare sul davanzale e quella del corn dog alle Fiere di Stato agricole.
Ecco quindi che il baseball, quale incarnazione di valori decisamente wasp, non poteva che essere lo sport che tra tutti ha avuto più difficoltà a fare cadere le barriere erette in nome della segregazione razziale. Uno sport che per assurdo non ha fatto particolare fatica ad essere popolare e a sfondare anche tra le minoranze etniche dei latinos e degli italo-americani. Il baseball è stato un veicolo che ha favorito l’integrazione delle appena citate minoranze etniche specialmente nelle zone delle Inner Cities (se si pensa ai New York Yankees, al borgo del Bronx ed alla sua rinascita, non si può che apprezzare il fondamentale contributo dato dai nostri “cugini d’Oltreoceano”); per alcuni aspetti si può dire che per gli ispano-americani e per i paisà, il baseball abbia rappresentato un percorso attraverso il quale ottenere il rispetto ed il riconoscimento sociale da parte della classe dominante, bianca e di origine germanica e britannica. E non poteva essere altrimenti: il baseball è sempre stato lo sport popolare per eccellenza, per nulla dotato di quel pedigree accademico o da “Ivy League” che ha invece caratterizzato i primi passi del Football e del Basket.
I Cuban Giants e le Negro Leagues
E sì, questo gioco lontano parente del cricket e stretto cugino del rounders (un gioco nato nelle Isole Britanniche molto simile al baseball con tanto di basi, mazze e palline) piaceva praticamente a tutti, anche e soprattutto a quei neri che si erano spostati dagli Stati del Sud al termine della Guerra Civile e che, da uomini e donne liberi, avevano deciso di cercare una nuova vita nelle grandi città del Nord come Chicago e Philadelphia. Lo sport, da passatempo dell’alta borghesia annoiata, diventò a fine Ottocento un fenomeno di massa volto ad interessare trasversalmente tutta la popolazione, qualunque fosse il censo e la provenienza etnica.
Sia concesso l’ingresso tra i professionisti anche ad italiani, irlandesi, ebrei e perfino a nativi americani, ma ai neri proprio no…
Il baseball in particolare divenne sport professionistico già all’inizio della seconda metà dell’Ottocento ed i campi da gioco vennero calpestati anche da alcuni rari giocatori afroamericani, ma i proprietari delle squadre professionistiche non videro di buon occhio questa intrusione. “Sia concesso l’ingresso tra i professionisti anche ad italiani, irlandesi, ebrei e perfino a nativi americani, ma ai neri proprio no…” era questo, in sintesi, il mantra a cui si rifacevano i proprietari dell’epoca. Alla fine del Diciannovesimo Secolo un “Gentlemen’s Agreement” tra gli stessi proprietari impedisce che il gioco del baseball divenga interrazziale tanto che i giocatori afroamericani, privati di ogni concreta possibilità di ingaggio, si organizzano in squadre separate. Nel 1885 vengono fondati i Cuban Giants, la prima squadra Negro della storia. Venne scelto questo nome perché si riteneva che se il pubblico pagante avesse pensato che si fosse trattato di una squadra straniera, sarebbero aumentate le possibilità di giocare partite contro squadre composte da bianchi e, quindi, incassare qualche dollaro in più. Si dice addirittura che per rendere più credibile il trucchetto, i Cuban Giants durante le partite fossero soliti parlare una sorta di grammelot che risultasse simile allo spagnolo alle orecchie meno smaliziate.
L’integrazione razziale della Seconda Guerra Mondiale
All’alba del “Secolo Breve” il baseball esplose ancor di più in popolarità e profittabilità: la National League fu affiancata dalla nuova e più dinamica American League ed i primi Campioni del Mondo furono incoronati in seguito alla disputa delle inaugurali World Series. Nel roster dei vincitori, i Boston Americans (più tardi sarebbero stati conosciuti come Red Sox), così come in quello dei Pittsburgh Pirates, non vi era un singolo giocatore nero. Nel frattempo, le squadre colored prosperarono in maniera parallela fino ad arrivare ai grandi successi di pubblico degli anni ’20. La voglia di baseball crebbe sempre più e le Negro Leagues diventarono un punto di riferimento fondamentale anche per le comunità nere non facenti parte degli storici hotbeds del baseball afroamericano: furono fondate squadre anche in città del Sud quali Atlanta, Memphis, Nashville, Brimingham e New Orleans.
Ci pensò la Seconda Guerra Mondiale a dare una decisa accelerata. La lotta contro l’Asse diventò un obiettivo comune che non poteva tollerare distinzioni razziali
La “segregazione di fatto” raggiunse l’apice nel secondo ventennio del secolo scorso: bianchi e neri vivevano come in due mondi paralleli. Il mondo dei bianchi era del tutto impermeabile ad influenze esterne: più ricco, maggiormente finanziato, ben rappresentato in politica e nei mondi accademico, artistico e militare. Nacquero però, i primi timidi movimenti per i diritti civili e, come per tanti altri aspetti della vita comune, ci pensò la Seconda Guerra Mondiale a dare una decisa accelerata. La lotta contro l’Asse diventò un obiettivo comune che non poteva tollerare distinzioni razziali (almeno formali). L’America, soprattutto quella urbana e quella delle due coste oceaniche, capì sinceramente l’importanza dell’integrazione e comprese che la divisione sociale non avrebbe portato a nulla di buono. Qualcosa era definitivamente cambiato, ed il volto del cambiamento fu quello gentile e fiero di Jackie Robinson, atleta mirabile uscito da quella straordinaria fucina di campioni che è la UCLA.
Il 15 aprile del 1947 il grande interno esordì in campo con la squadra dei Brooklyn Dodgers, indossando il numero 42. Non fu facile, soprattutto agli inizi. Se non fosse stato per l’allenatore Burt Shotton, per l’illuminata proprietà dei Dodgers e per qualche compagno di squadra (tra i quali spiccava il coraggioso Pee Wee Reese), Jackie sarebbe stato solo contro il mondo intero. Negli stadi d’America venne fischiato, dileggiato ed insultato, poi, mano a mano che i risultati arrivarono con straordinaria costanza (alla fine della stagione d’esordio venne nominato quale “Rookie of the Year”), fu studiato, temuto e, infine, anche rispettato.
L’eccezione dei Boston Red Sox
Quel piccolo diaframma nel quale trovò spazio Jackie Robinson si allargò sempre più e negli anni successivi un numero sempre maggiore di giocatori afroamericani compirono il salto dalle Negro Leagues, o direttamente dai College, alle Major Leagues. Già a metà degli anni ’60 le Negro Leagues perdettero il loro significato e la loro epopea finirà da lì a poco. Certo, ci furono alcune realtà dove l’integrazione faticò ad attecchire. L’esempio più lampante fu rappresentato dai Boston Red Sox, l’ultima franchigia di MLB ad avvalersi delle prestazioni di un giocatore afroamericano. I “Calzini Rossi” accettarono tra le loro fila un giocatore nero solo in virtù delle pressioni fatte dalla Commissione dello Stato del Massachussets contro la discriminazione avvenute in seguito alle rimostranze della N.A.A.C.P., la nota associazione impegnata per la tutela dei diritti civili delle persone di colore. Non solo, uno dei più vergognosi aneddoti della storia dello sport americano ci ricorda che nel 1945 lo stesso Jackie Robinson fece un provino a Boston e, nonostante gli spalti di Fenway Park fossero occupati solo dalla dirigenza della squadra del New England, l’interno californiano venne ripetutamente insultato a causa del colore della pelle in quello che più che un try-out sembrò una sorta di imboscata razzista ordita dal proprietario del club, Tom Yawkey. Solo nel 2018 (avete letto bene, 2018) la dirigenza dei Red Sox si è finalmente e decisamente distanziata dall’antico proprietario, cambiando pure il nome della via sulla quale sorge il loro storico campo da gioco, eliminando ogni riferimento a Tom Yawkey e ripristinando il precedente toponimo storico, Jersey Street.
I Boston Red Sox fu l’ultima franchigia di MLB ad avvalersi delle prestazioni di un giocatore afroamericano
La piena integrazione formale si compì faticosamente nel ventennio ’50-’60, tanto nel mondo dello sport quanto in quello civile, sullo sfondo di un’America che visse ulteriori episodi divisivi ma catartici come la vicenda di Rosa Parks, l’epopea di Martin Luther King Jr e dei “Big Six” e Malcom X. L’integrazione sostanziale mancò però quasi del tutto, specie in alcuni settori della società e ciò nonostante ripetuti sforzi del Governo Federale. I frutti avvelenati della segregazione razziale sono arrivati fino ai nostri giorni e, in àmbito sportivo, sono fatti di discriminazione all’interno degli spogliatoi e tra gli scranni dei consigli di amministrazione delle franchigie professionistiche; passano dal sospetto con cui venivano visti i primi quarterback neri (“i neri mancano della necessaria disciplina mentale per potere condurre un attacco di una squadra di football: il quarterback deve essere un bianco!”) per arrivare al “blocco culturale” solo di recente superato nei confronti degli allenatori di discendenza afroamericana.
Il prossimo passo
Lo sport misura in maniera piuttosto oggettiva le prestazioni tecniche ed atletiche come, suo malgrado, aveva constatato il Cancelliere del Terzo Reich alle Olimpiadi di Berlino nel 1936: il colore della pelle viene di fatto cancellato dal responso del cronometro o dal risultato al nono inning della partita. E tuttavia gli atleti sono anche uomini e donne, figli e figlie del proprio tempo, non sono macchine prive di una dimensione sociale ed è quindi impensabile di mettere loro un bavaglio (attraverso una subdola “autocensura”) che ne impedisca la libera espressione. Il problema della mancata integrazione sostanziale, così vivo e sentito negli Stati Uniti, non poteva essere sottaciuto da questi portavoce così in vista. A nulla valgono le pretese di chi, ben protetto dai propri privilegi, ritiene che un atleta debba limitarsi alla parte atletica del suo lavoro. Poco interessanti sono le puntualizzazioni presentate da chi, non conoscendo bene la dimensione americana, ritiene queste proteste solamente uno strumento di marketing o poco più. La realtà, contro la quale nemmeno il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America può fare granché, è che è emersa una nuova generazione di sportivi, anche nel vecchio mondo del baseball, pronta a lottare per realizzare compiutamente quella parità sostanziale che era nei sogni di Jackie Robinson e che è stata coraggiosamente richiesta nel 2016 attraverso il dirompente gesto di Colin Kaepernick.
La Major League Baseball, finalmente, è arrivata a compiere atti concreti di valore e sembra destinata a cambiare definitivamente la propria cultura in tema di inclusione e rispetto delle diversità: l’ha fatto dopo altri, ma l’ha fatto in ogni caso. Forse, come accennato sopra, gli interessi economici possono ciò a cui le coscienze non arrivano, ma sarebbe sinceramente importante, quanto il pubblico potrà finalmente tornare ad assistere le partite, vedere uomini e donne neri occupare gli spalti e tifare con passione i propri beniamini: non è un segreto infatti che la MLB sia la lega sportiva professionistica attualmente meno popolare tra l apopolazione nera degli Stati Uniti e che i giovani atleti neri preferiscano altri sport quali il basket ed il football. Il passo successivo, a questo punto, è quello della non-discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale, al di là di cappellini e calzini arcobaleno e altri “simpatici” gadget pride. Ma questa, come avrete intuito, è tutta un’altra storia: una storia che nel mondo dello sport in generale sembra ancora più nascosta etormentata