Non c’è dubbio alcuno che la serie completamente spagnola, ma finanziata da Netflix dopo la prima stagione, sia il successo planetario dell’anno per quanto riguarda le serie TV e più in generale, i prodotti da streaming. La Casa di Carta, traduzione letterale de La Casa de Papel, non solo é la serie più vista al mondo, ma é anche quella che proprio fuori dalla nazione originale ottiene il maggiore successo. In America le avventure dei guerrieri mascherati da Dalì ha sbaragliato qualunque avversario a stelle e strisce. Il successo risiede molto negli elementi raffinati della sceneggiatura, la scelta di personaggi ritagliati sulla realtà di molti giovani europei e anche un paio di scelte azzeccate nelle suggestioni evocate. E se da un lato Bella Ciao, la canzone storicamente legata alla lotta partigiana italiana, é stata inserita in un contesto nuovo di generica protesta verso il sistema, dall’altro é diventata inaspettatamente un tormentone (si fa fatica usare questo termine, ma per capirci) mondiale che in pochi mesi ha raggiunti i più disparati punti del globo. Del resto l’Italia nella serie gode di una buona aurea, visto che la Toscana é designata a buen retiro di uno dei personaggi più discussi e amari della serie, l’ambiguo Berlino.
Ma la liaison italiana de La Casa di Carta si ferma più o meno qui, mentre inaspettatamente non troviamo tracce del nostro tricolore quando nella serie entra a più riprese il calcio. Al punto che probabilmente i calciatori italiani devono essersene un po’ piccati, visto che proprio qui da noi sono stati molto pochi gli endorsement a favore dell’opera spagnola. Differenza abissale con il resto del mondo dove da Piątek che ha fatto da testimonial al lancio in Polonia a Jordi Alba e Dani Parejo che giocano a fare i personaggi della Casa di Carta, il mondo del calcio si é prestato a più riprese a promuovere la fortunata serie. Viene facile il sospetto che il minore amore dei calciatori italiani sia la competizione risolta a favore dei nostri più grandi avversari, esclusi i tedeschi, in fatto di Campionato del Mondo. Nella Casa di Carta viene infatti, viene ripreso più il volte il tema del calcio ed il confronto si risolve sempre verso quello colorato e gioioso della squadra verdeoro. Aggiungendo lo sfregio, presunto nella mente degli italiani, di far partecipare all’interno della serie Neymar, uno dei giocatori meno amanti (inspiegabilmente) dal pubblico italiano.
Gli autori, tutti tra i trentacinque e cinquant’anni, hanno visto probabilmente il calcio migliore della loro adolescenza giocato sempre e solo dal Brasile. Pensare ai mondiali del 1994, del 1998 e del 2002. Un plebiscito brasiliano con due primi posti e un secondo posto. Vale la pena ricordare senza dilungarci troppo che la squadra che nel 2002 batté una povera Germania, composta da soli esseri umani, non era esattamente un team di buoni giocatori, ma qualcosa di più vicino alla navicella di UFO Robot. Leggendo a ritroso la formazione scopriremmo che in attacco il Brasile schierava Ronaldo (probabilmente uno dei tre giocatori più forti di tutti i tempi) Rivaldo, Ronaldinho, Roberto Carlos e andando in ordine sparso Lùcio e Cafù. Una squadra che ad immaginarla al fantacalcio si rischia di essere accusati di avidità. É ovvio che gli autori de La Casa di Carta avessero in mente il Brasile quando pensavamo all’ideale del calcio, visto come gioia e divertimento. Va inoltre tenuto in conto cosa facevano le squadre spagnole durante gli ultimi venticinque anni di calcio europeo dove, a parte una parentesi del Milan dei grandi anni, il dominio nelle competizioni europee delle squadre spagnole é stato praticamente indiscusso. Tutto ciò fino all’arrivo della coppia di palloni d’oro Messi e Ronaldo che hanno catalizzato l’attenzione europea anche quando a vincere erano gli altri. Per gli amanti del calcio spagnolo il complesso di inferiorità nei nostri confronti non é mai stata una patologia rilevata, tanto più che nel 2010 le furie rosse si aggiudicarono il titolo di campioni del mondo per la prima volta nella loro storia, seppure in un mondiale decisamente sottotono.
La decisiva indicazione a favore delle riflessioni fatte fino ad ora arriva però, da un elemento extra calcistico, potremmo dire filosofico. Chi oggi ha più di trent’anni non può aver dimenticato cos’è stato il Camerun nella mente dei ragazzini appassionati di calcio durante tutto il decennio degli anni novanta. A ricordarlo bene per esempio, ci sarà Luigi Buffon che in una lettera di un anno fa, ricordava come la passione per il calcio gli era nata proprio guardando tra i pali Thomas N’Kono, lo statuario portiere del Camerun. Presentatosi come la cenerentola del Campionato Mondiale, il Camerun fece il suo esordio nel torneo vincendo contro i detentori del titolo, ovvero l’Argentina di Diego Armando Maradona. Passo dopo passo, magia danzante dopo magia danzante del trentottenne Róger Milla, il Camerun raggiunse i quarti di finale dove ci vollero i tempi supplementari agli inglesi per sconfiggere la squadra africana. Da quell’edizione del mondiale in poi, il Camerun fu sempre visto dalla comunità calcistica mondiale come la rappresentazione di chi riesce a vincere pur avendo pochi mezzi. Per questa ragione il Professore quando deve spiegare come invocherà il favore dell’opinione pubblica se il piano dovesse scricchiolare, illustra la teoria del Camerun. Di fronte ad una sfida di smisurato disequilibrio, il pubblico tiferà per il più debole, per quello che ha meno speranze. Effetto simpatia, riducendo molto. Teoria che troverebbe d’accordo il buon Milan Kundera che nell’Insostenibile leggerezza dell’essere mostrava come la debolezza possa sedurre e sconfiggere anche la forza d’acciaio, illustrata del capolavoro come il mirabile ritratto di Tereza. Insomma la genialità degli autori de La Casa di Carta sta nell’aver aperto un immaginario completamente nuovo in cui a piegare i media per una volta non é il potere, ma il contro potere, meglio se nero, femmina e antagonista. Il Brasile però, sta sopra le cose della vita, il Brasile é l’immaginario del ballo sulle cose, come Shiva, come se poco contasse vincere o perdere ma l’importante fosse la bellezza del gesto. Come per la squadra di disperati che attacca la Zecca spagnola; non è importante vincere, ma dimostrare che si può immaginare di farlo.