La recente avventura di un gruppo di ragazzi italiani che hanno vinto la Rickshaw Run, ovvero la gara di beneficenza più pazza del mondo come definita dagli stessi organizzatori, ha riacceso in molti lettori nostrani le fantasie che al viaggio sono legate. I quattro ragazzi milanesi già dalla scelta del nome Flaneurs, come Baudelaire definiva i perdigiorno, cioè coloro che non hanno una funzione precisa da svolgere nelle proprie giornate, hanno lanciato una suggestione letteraria davvero forte ed emozionante. Ma del resto, raccontare il viaggio nella letteratura sarebbe un tema troppo grande da affrontare, col rischio di parlare di tutto e, ovviamente, di niente. Certo che la letteratura di viaggio può essere definita, quasi tutta, letteratura nel suo insieme, visto che l’esperienza vissuta o immaginata da uno scrittore in un libro è spesso frutto di viatico o di un cambiamento che sposta l’attenzione del narratore verso qualcosa di nuovo e sconosciuto fino al momento di mettere nero su bianco i propri pensieri.
La cronaca scientifica, il racconto dei cambiamenti, l’effemeride, tutto si nasconde nella letteratura di viaggio, quasi ad indicare che la bellezza sta negli occhi di chi guarda oltre che in quello che si osserva. Per questo esistono esempi di letteratura da viaggio brutti ed esempi eccellenti, dipende da chi li scrive. Naturalmente nella versione moderna il viaggio è diventato anche una questione esistenziale e qui non possiamo dimenticare Chatwin, col suo Che ci faccio qui? ha raccontano meglio di chiunque altro la tensione dolorosa e nostalgica di chi ha ha trasformato l’irrequietezza nel proprio modus vivendi. Ma c’è anche un altro viaggio, quello nato da una sfida, quello in cui la meta non è soltanto l’arrivo da qualche parte ma la conclusione di un tenzone con se stessi o con qualche allibratore. Esempio magistrale in questo campo è quello de Il giro del Mondo in Ottanta giorni di Jules Verne, epica sfida di un gentiluomo inglese dal cuore generoso, dai principi morali altissimi e dalla curiosità felina per l’avventura. Una sfida che Verne immaginò dal suo studio grazie anche ad un tappeto rappresentante il mondo sotto ai propri piedi, su cui lo scrittore francese si muoveva fisicamente per incanalare le avventure di Phileas Fogg e del suo affidabile servitore Passpartout. Se non avete mai letto questo libro ritenetevi degli uomini fortunati, se lo leggerete scoprite uno dei vertici della letteratura di sempre. Beati voi che dovete ancora scoprirlo.
Ma bisogna tornare in Italia, qualche anno fa, per scoprire le sfide che Giorgio Bettinelli iniziò a compiere a partire dal 1992 con la sua Vespa. Da un episodio assolutamente casuale, la Vespa gli fu regalata mentre era in vacanza a Sumatra, Giorgio Bettinelli trasse una vera e propria illuminazione esistenziale, quella di attraversare il globo terrestre con il mezzo italiano a due ruote più famoso al mondo. Da Roma partì la prima avventura che portò il giornalista, cantautore e scrittore romano, verso Saigon, 24.000 chilometri percorsi su due ruote, fra una chiacchiera con il contachilometri e qualche riparazione in lingua sconosciuta in qualche remota località tra asiatica. Da quella esperienza nacque Da Roma a Saigon in Vespa a cui fecero seguito altri quattro racconti di viaggio. Nei racconti di Giorgio Bettinelli non c’era però, solo sfida chilometrica o una dimostrazione di forza. E’ la ricerca interiore, l’interrogarsi sulle grandi domande dell’esistenza a far da benzina per il fuoco del viaggio. Cos’è il tempo?, Cos’è l’amore?, Moriamo o no? Chi ha letto i libri di Bettinelli sa come nelle sue pagine il viaggio venga identificato con lo spostamento d’identità, sempre altrove e sempre da ritrovare. Il racconto di un amore nato in una notte attraversando un fiume e morto dopo poche ore, portando con sé la sua eternità e la sua sincerità. Amore pronto a rinascere tra mille chilometri con un altro nome e un altro odore.
Bettinelli è stato una fiamma di poesia e avventura nel panorama sonnolento degli anni novanta italiani, le sue parole cariche di fragilità e malinconia ci ricordano cos’è l’uomo e quanta sia instabile e caduca la sua esistenza. Interrogato su cosa significassero per lui il viaggio e la sfida ai chilometri, amava dire che poco gli interessava in realtà della componente agonistica della faccenda, era una tensione interiore ad impedirgli di rimanere fermo in un posizione. La possibilità di pensare che il tempo si potesse fermare, che il qui e ora fossero entità palpabili e governabili. L’illusione che qualcosa dell’esistenza potesse davvero essere fermato con le mani.
E’ una delle sensazioni che ho sempre amato di più, e che così spesso mi ha dato l’illusione di essere libero e padrone della mia vita: quel grappolo di minuti dalla consistenza indefinibile, quando non è ancora buio e non è già più giorno, e tu entri in un posto che non hai mai sentito nominare, con la consapevolezza che domani sarai già lontano, e che per altri mesi, per altri anni, per altri grappoli di minuti della stessa intensità continuerai ad allontanarti, assecondando il dipanarti di una matassa il cui filo ti si srotola tra le mani senza farsi accorgere, e finisce dall’altra parte del mondo.
Probabilmente in Bettinelli c’era qualcosa di più di quello abbiamo potuto capire: una filosofia vecchia e nuovissima, profonda ed empirica. Una filosofia molto vicina a quel pensiero Orientale a cui spesso e volentieri Bettinelli si accostava per confrontarsi e da cui si lasciava addolcire nelle proprie riflessioni. Oriente che per Bettinelli è stato fuga e approdo quando nel 2008 a soli 53 anni, il giornalista e viaggiatore cremonese, si spense per un improvviso malore a Jinghong nell’amata Cina, mentre stava per dare alle stampe nuovo libro dedicato al Tibet. Il viaggio, parola oggi abusata e storpiata di senso, è uno dei grandi moventi dell’uomo capace di cambiarlo e renderlo migliore. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” fa dire Dante ad Ulisse, simbolo e protettore degli inquieti viaggiatori di tutti i tempi.