C’è stato un momento in cui la Colombia è diventata una delle nazioni calcistiche più floride e più potenti del Sud America. Una fonte inesauribile di talenti e di squadre pronte a competere nei più grandi palcoscenici del calcio mondiale. Un periodo durato quasi vent’anni che coincide con l’ascesa e il declino dei grandi cartelli colombiani della cocaina perché questa non è solo una storia di calcio. È anche, forse soprattutto, la prova di come il calcio sia l’accentratore di ogni deriva umana. Raccontarla significa ripercorrere quella che è stata la Colombia dagli anni Settanta fino al tragico mondiale di USA ‘94 perciò mettetevi comodi e non illudetevi, questa è una storia vera.
Tutti parlavano di chi avesse donato quei campi e Pablo Escobar era criticato per essere un signore della droga. Noi ci sentivamo solo fortunati di poterci giocare.
Leonel Alvarez, 101 presenze con la maglia della Colombia tra il 1985 ed il 1995
Dalla metà del 1970 il traffico di cocaina in Colombia conobbe un eccezionale sviluppo tanto da diventare in pochi anni il prodotto più esportato del Paese, circa il 30% delle esportazioni totali colombiane, superando anche quelle del caffè. Il controllo del traffico era in mano ai cartelli dei narcos come il cartello di Cali dei fratelli Rodríguez Orejuela, ma soprattutto come quello di Medellin del più noto narcotrafficante della storia, Pablo Escobar, che da solo controllava l’80% del traffico mondiale di cocaina. In poche parole, i narcotrafficanti erano i nuovi padroni della Colombia. Come sempre in questi casi i soldi, soprattutto se illeciti, portano ad un giro di interessi che passa inevitabilmente dal calcio e dalle sue derive sociali. I narcos scelsero realtà locali sportive, come quelle delle loro città, per il riciclo del denaro della droga. Bisogna citarne due in particolare: l’Atlético Nacional de Medellín, il club de El Patron, e l’America de Cali, dei fratelli Orejuela, nemici di Escobar. Due squadre rivali, il simbolo di una guerra che inesorabilmente si stava spostando dalle strade agli stadi. Se all’inizio questi club erano soltanto entità di comodo ben presto, per tutti i narcos ed in particolar modo per Escobar, diventarono il volano della loro affermazione sociale. Investendo nel calcio, nella creazione di nuovi stadi, ma anche nelle scuole e in generale, nella comunità locale El Patron diventò Robin Hood paisa, un eroe per la sua gente, talmente amato da essere eletto nel 1983 deputato tra le fila del Partito Liberale.
Ed è in questo contesto che il calcio cafetero trovò il suo rinascimento. Il soldi della cocaina diventarono lo strumento per migliorare stadi, campi di allenamento, per investire nei giovani e per bloccare quell’esodo di massa che vedeva i migliori atleti fuggire dai miseri stipendi colombiani verso i milioni europei. Si creò uno zoccolo duro di giocatori locali che ben presto diventarono titolarissimi della Nazionale, Renè Higuita, Andrés Escobar, Carlos Valderrama, Luis Herrera, solo per citarne alcuni. Il fatto di avere il lusso di non dover cedere i giocatori più forti permise ai club colombiani di affermarsi non solo in patria, ma anche nei tornei continentali. L’Atlético Nacional nel 1973 dopo 19 anni vinse il suo secondo titolo nazionale e nel 1989 divenne la prima squadra colombiana a vincere la Copa Libertadores, andando a sfidare il 17 dicembre dello stesso anno il Milan di Sacchi per la Coppa Intercontinentale, persa all’ultimo minuto dei tempi supplementari. L’America de Cali vinse nel 1979 il suo primo titolo nazionale per poi vincerne altri 5 di fila tra il 1982 e il 1986 e arrivare a disputare 3 finali di fila della Copa Libertadores.
Imprese incredibili per il calcio colombiano, ma tutto questo ebbe un prezzo. Considerando anche l’interesse dei narcos nel settore delle scommesse, ogni partita assumeva una connotazione che andava al di là del mero scontro sportivo per sfociare in derive criminali. Così non c’è da stupirsi se il 15 novembre 1989 l’arbitro Alvaro Ortega a soli 32 anni venne ammazzato dai sicari di Escobar per aver fatto perdere, secondo il boss, la sua squadra contro quella dei suoi acerrimi rivali.
Io e Alvaro stavamo andando a piedi al ristorante dopo la partita quando sentimmo un forte stridore di pneumatici, guardammo verso la macchina e vedemmo le pistole. Ortega aveva già capito e aveva cominciato a correre ma fu colpito a una gamba. Il sicario scese tranquillamente dall’auto e gli sparò altri nove colpi.
Jesus Dìaz, amico di Alvaro Ortega
O se nel 1990 l’arbitro Cardellino denunciò un tentativo di corruzione subito in occasione del match tra Vasco de Gama e l’Atlético Nacional con annesse minacce di morte. Ma l’episodio più sconcertante avvenne subito dopo il Mondiale americano del 1994. Pablo Escobar era morto l’anno prima nel dicembre del ‘93, ucciso sui tetti di Medellin durante un tentativo di fuga, ma il calcio colombiano era ancora governato da interessi criminali. I Cafeteros arrivarono a quel mondiale carichi di speranza e di ambizione. Il percorso di qualificazione li aveva visti protagonisti di bellissime vittorie (storico lo 0-5 contro l’Argentina a Buenos Aires) tanto da essere ospitati e “benedetti” nel settembre del 1993 da El Patrón in persona ne La Catedral, la prigione che il boss si era costruito per evitare l’estradizione negli States. Ma le belle speranze si infransero ben presto. Tre mesi prima dell’inizio del torneo un tragico episodio sconvolse la Nazionale colombiana. Il figlio di Luis Herrera venne rapito e subito liberato in seguito a manifestazioni e appelli del giocatore in tv. Così in questo clima teso i colombiani steccarono la prima partita del Mondiale, perdendo 3-1 contro la Romania. Dopo la partita, il 22 giugno alle 11 del mattino (cinque ore prima del secondo match contro i padroni di casa) giunse nell’hotel in cui risiedevano i colombiani un fax anonimo.
Se Gomez gioca faremo saltare in aria la sua casa e quella del ct Maturana
Il fax si riferiva a Gabriel Gomez, centrocampista 34enne, considerato dalla stampa colombiana il principale responsabile della sconfitta contro la Romania. Gomez era già stato bersagliato dalle critiche perché in molti ritenevano giocasse solo perché suo fratello era il vice allenatore della squadra. Così tutti, staff e giocatori, a poche ore dalla tragica sfida contro gli Stati Uniti si riunirono e a malincuore decisero di estromettere il giocatore. La partita contro gli yankees i colombiani la giocarono, ma la persero a causa di un autogol di Andrés Escobar, capitano e difensore della Selecciòn. Quell’autogol costò il mondiale ai Cafeteros e molto di più ad Andrés. Il 2 luglio 1994 all’uscita da un ristorante nel cuore di Medellin Humberto Muñoz Castro, sicario della mala, si rivolse al giocatore, gli disse:«Grazie per l’autogol» e lo ammazzò con 12 colpi di mitra.
Il resto fu un declino parallelo dei cartelli di Medellin e Cali e di conseguenza anche del calcio colombiano. Quell’esplosione di talento e vittorie che nella terra del caffè, delle orchidee e dei colibrì si spense nel sangue della polvere bianca. Ed ora? Ora che una nuova generazione di talenti colombiani sembra riaffiorare bisogna posizionare il binocolo più a nord verso il Messico, il secondo campionato più ricco dopo quello brasiliano, dove gli intrecci tra calcio e droga sembrano far riemergere antichi fantasmi. Dicono che il passato ritorna sempre, per una volta si può imparare dai propri errori.