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Parigi – Roubaix, the Queen in the North

Ho ancora nelle orecchie le urla della folla a bordo strada. Da pelle d’oca. Lassù il ciclismo è una religione. I corridori sono eroi.

Parola di Alberto Ballan all’indomani del suo trionfo “lassù”, al Ronde van Vlaanderen, dove la passione per il pedale è qualcosa di più che un semplice interesse diffuso, rasentando piuttosto la devozione di massa. Dagli albori del secolo scorso, cioè più o meno da quando esistono le biciclette, nell’area compresa fra il nord della Francia, il Belgio e i Paesi Bassi sono state organizzate competizioni su quasi ogni tracciato disponibile. Entusiasmo e partecipazione di atleti e tifosi hanno permesso a molte di queste gare di svilupparsi attraverso i decenni, superando persino gli anni bui delle guerre mondiali per arrivare, ad oggi, a potersi fregiare del titolo di classiche. Accanto al già citato Ronde si possono menzionare, fra le altre, la Liegi – Bastogne – Liegi, la Freccia Vallone, la Gand – Wevelgem e soprattutto, la Parigi – Roubaix che rappresenta il compendio delle caratteristiche e dello spirito per cui le corse della campagna del Nord sono indelebilmente iscritte tra le pagine fondamentali del ciclismo.

Parigi - Roubaix

Cuce insieme due nazioni, dalla “città più romantica del globo” a un velodromo costruito per volere di due filatori, lungo le antiche vie dei mercanti di stoffa delle Fiandre, una gara la cui spietata durezza era nota persino prima che fosse istituita ufficialmente. Nel 1896, alla vigilia della prima edizione, il giornalista Victor Breyer venne inviato a sperimentarne parte del tracciato. Dopo una giornata intera in sella in balia del fango e delle intemperie, bollò lapidariamente l’idea di una competizione su quelle strade come un “projet diabolique”, esortando gli organizzatori affinché la sospendessero. In effetti, viene spontaneo domandarsi cosa mai c’entrino quegli stretti viottoli a schiena d’asino, pavimentati di porfido viscido e limaccioso, su cui spingere la bicicletta diventa questione di equilibrismo più che di equilibrio, con una corsa in linea di velocità. Ma tant’è: una religione non ha bisogno di spiegazioni razionali.

Il fiato si spezza, le biciclette scartano e si impennano come puledri indomabili, spesso rompendosi; raffiche di vento e scrosci di pioggia gelida logorano implacabili la resistenza dei ciclisti

Non c’è una strategia precisa per attraversare il regno della Regina delle Classiche, l’Inferno del Nord (due dei nomignoli con cui la Roubaix è nota) e uscirne intatti, magari persino vincitori. Il fiato si spezza, le biciclette scartano e si impennano come puledri indomabili, spesso rompendosi; raffiche di vento e scrosci di pioggia gelida logorano implacabili la resistenza dei ciclisti. Il trofeo stesso, un cubo di quel medesimo pavé contro cui si è lottato letteralmente con ogni fibra del proprio fisico per chilometri e chilometri, ha il sapore di uno scherzo beffardo. Roger de Vlaeminck lo ha sollevato per ben quattro volte, guadagnandosi l’appellativo di Monsieur Roubaix, mentre l’ultimo italiano a conquistarlo è stato Andrea Tafi, nel 1999.

Per tutti gli altri, i gregari, le pietre restano sotto le ruote. Maschere di fango dietro cui celare l’ambizione sacrificata al gioco di squadra (qui più che altrove) dal risultato incerto, tutto ciò che porteranno con loro oltre il traguardo. Smontati di sella saranno come statue di terra cruda, irriconoscibili e sfiniti monumenti all’abnegazione di se stessi in nome di una vittoria altrui. E i monumenti, si sa, si erigono per gli eroi, anche quando gli eroi non vincono. Perché, come ebbe a dire in un’intervista il corridore olandese Theo De Rooij, dopo l’edizione del 1985:

Questa corsa è uno schifo. Lavori come un animale, corri in mezzo al fango, ti pisci addosso, scivoli di continuo… È una merda. Se tornerò? Ovvio, è la corsa più bella del mondo!

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